Chiusi nella
nostra stanza, il capo chino sui libri e l’aria, sempre più viziata, ormai
irrespirabile è inevitabile che il nostro sguardo cerchi la libertà fuori dalla
finestra: il sole splende scintillante, gli uccellini volano liberi da
qualunque legame nel cielo limpido e tutto sembra pieno d vita (immagini
bucoliche a caso). In questi momenti vorremmo essere in posti sconosciuti,
lontanissimi, circondati da suoni, odori e colori indescrivibili… ma il corpo
rimane legato alla nuda, fredda e grigia realtà. Viaggiare, muoversi e ampliare
le proprie conoscenze è il principio primo che ha portato l’uomo a essere più
civilizzato e aperto, a entrare in contatto con comunità dagli usi e i costumi
molto diversi dai suoi (e poi a bombardarlo coi droni, ma questa è un’altra
storia). Ma come abbattere queste barriere spazio-temporali che ci tengono
legati tra le quattro mura di casa nostra (ovviamente senza utilizzare un
disintegratore di materia al plutonio arricchito)? Uno dei modi più semplici e
rapidi è quello di accendere il cervello (sempre che riusciate a trovare
l’interruttore), aprire un libro e immedesimarsi, anima e corpo, con il
contesto vissuto dal protagonista della nostra storia. Ed è proprio questo il
proposito della mia nuova collana! Ci addentreremo in terre lontane e
leggendarie popolate da essere bizzarri e mostruosi (no, niente rettiliani, mi
dispiace) che ci sorprenderanno con il loro aspetto e le loro inusuali
abitudini.
Ma ci serve
un punto di partenza comune, un “gate” a cui ritrovarsi (come i gruppi
organizzati alle sei di mattino alla Malpensa). E quale posto migliore se non
il confine estremo del mondo conosciuto dagli antichi, l’ ”isola che non c’è”
per eccellenza? Di che sto parlando? Ma della nordica Thule! Quest’isola, in
cui i periodi di luce e di buio durano mesi e mesi, circondata da un mare
ghiacciato e morto, viene descritta per la prima volta da un certo Pitea di
Marsiglia che, circa nel 330 a.C., dice di averla raggiunta navigando per sei
giorni dalla Britannia (Greci in Inghilterra 300 anni prima di Cristo…
scommetto che non ce li avreste mai visti!). Questo aneddoto ci viene riportato
da storici illustri quali Polibio (206 a.C.-124 a.C.) e Strabone (60 a.C.-23
d.C.) come esempio negativo, perché raccontaballe, di avventuriero o “logografo”,
come lo definivano i Greci. Questo termine veniva usato per indicare chi si
metteva a fare lunghissimi viaggi in terre sconosciute a raccogliere
informazioni interessanti sui costumi e le tradizioni degli altri popoli da
raccontare, oralmente o per iscritto, a chi non si poteva muovere (ancora non
c’era la Lonely Planet, ci si doveva accontentare). Il problema nacque però
quando i vari autori cominciarono a comporre i loro diari di viaggio standosene
tranquillamente seduti a casa e inventandosi tutto di sana pianta, oppure
aggiungendo particolari inesistenti tratti dalle varie leggende locali solo per
attirare gente e essere più popolari (un tempo dire di aver visto una
popolazione con la testa da cane e il corpo umano valeva all’incirca 500 mi
piace, secondo una stima fatta da alcuni storici recentemente). Solo in seguito,
nell’antica Grecia, il termine logografo indicherà, con disprezzo, chi
componeva orazioni di difesa per altri da recitare in tribunale (una sorta di
avvocati, insomma). Ma sul problema dell’attendibilità delle testimonianze
tratterrò a parte in seguito, non temete (sì, lo so, sto cominciando a dirlo un
po’ troppo spesso ma abbiate fede, c’è tempo per tutto)! Ora, tornando al
nostro Pitea di Marsiglia, sembra quanto mai improbabile che effettivamente sia
riuscito a raggiungere una terra del genere coi mezzi a disposizione per
quell’epoca. Sì, è vero che sono condizioni climatiche che si trovano in paesi
come l’Islanda o la Norvegia del nord ma, in sei giorni, con una nave di legno
in mezzo al nulla è quantomeno poco credibile. È invece decisamente più
probabile che abbia sentito parlare di questi paesi da altri viaggiatori magari
proprio in Britannia, da cui dice di essere salpato . Oggi, però, non siamo qui
a parlare di quest’individuo in particolare, di cui ignoriamo praticamente
tutto, ma di una grande opera letteraria: “Le Incredibili Avventure al di là di
Thule” di Antonio Diogene.
<<Antonio
Diogene? E chi cazzo è costui?>> (cit. Don Abbondio)
Bho. Bho sul serio, non sappiamo nulla di
nulla del personaggio se non che aveva una sorella di nome Isidora (i dettagli
utili). Si stima però che sia vissuto all’incirca nel I secolo d.C. .
<<
E vabbè, di lui non sappiamo nulla ma sorvoliamo. E dell’opera che ci dici?
Com’è? Sarà sicuramente un grande capolavoro!>>
Bho. Bho anche qui, mi dispiace, ma a noi, di
questo romanzo gigantesco in 24 libri, non è che rimasto uno scarno riassunto
di poche righe composto da Fozio (820 d.C.-893 d.C.), un bibliografo bizantino
(che ho scoperto essere pure santo, alla faccia!) che ha scritto varie sintesi
di opere del passato, e un paio di frammenti molto inconsistenti. Fine. Tutto
qui: come non aver nulla, più o meno. Inoltre il riassunto, di qualche decina
di righe, non fa altro che tracciare le linee base di una trama intricata e
sicuramente molto nota a tempi senza dare il minimo dettaglio: a Fozio non
interessa illuminarci con le meraviglie incontrate dai personaggi in viaggio
che, anzi, riteneva, come qualunque scritto frutto della fantasia dell’autore,
opera del demonio (un uomo dalla mentalità aperta diremmo oggi).
<<Vabbè
dai, niente autore, niente opera, ma almeno la trama com’è?>>
Mha, a dire
il vero, senza il minimo dettaglio, sembra abbastanza anonima. La storia è
narrata a turno dai tre protagonisti a un amico in visita nella loro casa a
Tiro con la tecnica del flashback. Non starò qua a riassumervi punto per punto quelle
poche righe lasciateci da Fozio perché non si può fare la sintesi di una sintesi:
in poche parole c’è Dinia, il protagonista, che arriva, dopo mille peripezie, a
Thule dove incontra Dercillide, una ragazza di cui si innamorerà, che, giunta
lì dopo mille avversità, si trova legata all’isola dove, per malvagio
incantesimo di uno stregone egiziano, può vivere solo di notte mentre di giorno
lei, insieme al fratello, giacciono come morti (no, una frase più contorta non
sono riuscito a trovarla, prego.). Solo nell’ultimo libro riescono a sciogliere
l’incantesimo e, in sogno (non chiedetemi perché), a varcare i confini estremi
del mondo superando Thule e raggiungendo la Luna dove… non sappiamo cosa
vedono. Questa parte, sicuramente molto fantasiosa e piena di dettagli
interessanti, viene brutalmente troncata dal nostro mai-così-simpatico Fozio e
dalla sua fede. Grazie Fozio, grazie davvero, non dovevi proprio, troppo
gentile! Sappiamo però che le cose sono finite bene perché, a parlare, è
proprio Dinia, ora sposato con Dercillide. Questa storia capita nelle mani di
Antonio Diogene perché, prima di morire, i protagonisti l’hanno trascritta su
delle cortecce d’albero ritrovate secoli dopo da un generale di Alessandro
Magno durante l’assedio di Tiro nelle loro tombe. Ovviamente tutto ciò non è
mai successo (no bambini, i Greci non sono arrivati sulla Luna), si tratta di
un falso storico: la tecnica del manoscritto ritrovato è stata in seguito usata
da molti autori come ad esempio Rabelais nel “Gargantua e Pantagruele” e Manzoni nei “Promessi Sposi”.
Ma dunque,
perché quest’opera è così importante anche se di lei sappiamo poco o nulla?
Perché, come ci dice lo stesso Fozio, questo romanzo è stato uno dei primi ed è
servito da modello a tutte le altre opere, antiche e non, che sono state scritte
in seguito: ritroviamo non solo schemi narrativi come quello dell’abbandono e
del ritrovo presenti in numerosissime opere tra cui ancora una volta il
capolavoro di Manzoni, ma anche situazioni tipiche divenute ormai famosissime
come la scena dell’amante che si suicida perché pensa che l’amata sia morta
quando invece non lo era (Shakespeare nel “Romeo e Giulietta” non si è
inventato nulla). Ma come nasce un’opera così complessa e piena di temi?
Evoluzione graduale o intuizione geniale? Probabilmente una via di mezzo. Gli
unici modelli, da noi conosciuti, che esistevano precedentemente erano il poema
epico ( “Odissea” e le “Argonautiche” di Apollonio Rodio (295 a.C.-215 a.C.))
per il racconto avventuroso e le fabulae milesiae, stoirelle di origine
popolare, per l’uso della prosa: tutte queste influenze non sono però
sufficienti a giustificare un qualcosa di così innovativo, impegnato e perfetto
stilisticamente, stando almeno a quel che ci dice Fozio.
E dunque
ancora, perché dedicare un intero brano ad un’opera di cui sappiamo così poco?
Il capitolo vuole essere un piccolo punto di partenza per il mio progetto di
gestione del blog, ma cerco di spiegarmi meglio. Il 29 gennaio il blog compie
un mese e, in 30 giorni, sono riuscito ad arrivare dal nulla a 900
visualizzazioni. Ma sono solo numeri, direte voi, non sono quelli che rendono
bello o popolare il tuo spazio, possono anche essere casuali le
visualizzazioni, non contano nulla. Questo è vero, da un certo punto di vista,
però per me tutto ciò significa molto molto di più di quanto voi non possiate immaginare.
Quindi, dopo un mese di collaudo di questa pagina, sono pronto a prendermi
carico seriamente del tutto e vi prometto che non vi deluderò. Thule, il limite
geografico sulla mappa degli antichi, il mio limite interno di timidezza e
ritrosia nel gestire questo spazio, è ormai superata: preparatevi a salpare con
me! Quindi un ringraziamento dovuto va a tutti voi che state leggendo queste
righe e, se pensate che vi abbia rotto le palle continuando a chiedervi
opinioni a ciascuno fin’ora, sappiate che questo è solo l’inizio. Volevo
dedicare questo brano ai miei genitori che, da 13 anni, mi fanno conoscere il
mondo grazie a tanti viaggi che non tutti possono permettersi di fare ma che
dovrebbero essere d’obbligo per capire il valore di tutto ciò che è diverso da
noi.
So di essere
stato eccessivamente sentimentale, scusatemi ancora!
E come non
concludere un brano su Thule senza rimandarvi a chi l’ha cantata meglio di me? Colonna sonora per i titoli di coda più che doverosa!
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La prossima
volta cambiamo genere portandoci in un filone “oscuro” della letteratura!