sabato 1 marzo 2014

Collana "A Bordo di Libro" (titolo provvisorio), ep 1: il Viaggio Come Esperienza Fantastica: la "Storia Vera" di Luciano (parte 1: trama)


Salve e benvenuti a tutti quanti! Oggi, come promesso, vi parlerò di una delle mie opere preferite di cui già vi avevo promesso avrei parlato (visto che rimando ma poi faccio?): la “Storia Vera” di Luciano di Samosata. Dell’autore ho già parlato in questo articolo, dove troverete tutte le informazioni necessarie per conoscere l’autore e la sua formazione. Ma, prima di iniziare, qualche breve parola sulla collana “A Bordo di Libro”, titolo ancora provvisorio in attesa di trovarne uno migliore (se ne avete suggeritemi con un commento). Come avrete capito tratterò dei viaggi più disparati e particolari della storia della letteratura ma non necessariamente in ordine cronologico. Quindi, per dire, se per il momento non mi vedete parlare di opere precedenti a questa, come l’ “Odissea” di Omero o le “Argonautiche” di Apollonio Rodio, non è che me ne sono dimenticato o non ne voglio parlare ma, come in un viaggio “on the road” all’avventura, preferisco proseguire dove mi porta l’intuito e l’ispirazione del momento, privo di vincoli e imposizioni di alcun tipo (la verità è che non ho avuto ancora modo di leggerli con calma)
Questo articolo ho deciso di dividervelo in due parti, a causa della sua lunghezza, così da renderlo più agevole: nella prima troverete la trama riassunta episodio per episodio con varie annotazioni che poi non riprenderò nella seconda, tutta incentrata sui modelli e le fonti di ispirazione. Inoltre, alla fine di entrambi i brani troverete il link del blog “I Don’t Know” con cui collaborerò per gli articoli su One Piece (ve ne parlo dopo) di cui in ogni caso pubblicherò il link volta per volta.

L'ultima volta abbiamo visitato la fredda Thule di Antonio Diogene, arrivando ad intravedere le lontane e misteriose coste della Luna mentre oggi ci spingeremo ancora più in là, nel territorio dell’ignoto.

La trama è qua riassunta in tutti i suoi  numerosissimi e fantasiosi episodi e, quindi, se proprio non volete rovinarvi nessuna sorpresa, evitate di leggere questi due articoli e correte in libreria a comprare il romanzo: ne rimarrete estasiati!

Il protagonista, come si viene a sapere più avanti nell’opera, è Luciano stesso che, dopo un breve prologo (che analizzerò dopo), ci racconta, come se si trattasse di un diario di bordo, della sua avventura al di là delle colonne d’Ercole, poste tra il Mediterraneo e l’oceano, verso un nuovo e misterioso continente. Infatti non dovete pensare, come invece vuole la leggenda popolare, che gli antichi ritenessero che la terra fosse piatta: la sfericità della terra era un dato assodato per motivi sia scientifici sia filosofici e non aveva bisogno di particolari spiegazioni (sono semmai gli americani che ancora oggi pensano che l’Europa sia uno stato). Non ci vengono fornite indicazioni circa la composizione della ciurma: i suoi membri non sono che figure prive di importanza, come pezzetti di carta sballottati dalla corrente degli eventi. I veri protagonisti sono i posti straordinari e fantastici visitati dal protagonista, figura anch’essa assente dall’azione, come un semplice spettatore mai partecipe attivamente nelle vicende.

 La prima isola incontrata dai nostri eroi è l’isola del vino, tema centrale attorno cui ogni cosa qua si modella: i fiumi sono di vino e i pesci alcolici tanto per fare un esempio. Mentre tutti si ubriacano in un’ allegra orgia alcolica, due membri della ciurma si allontanano e incontrano degli strani esseridonne dalla testa alle gambe (passera inclusa nel prezzo) e poi ancorate come viticci al suolo. I due marinai, ingrifati come dei bisonti del Mar Morto per il vino e la lontananza, dovuta alla mancanza durante il viaggio di qualunque essere che avesse una fessura femminile (se escludiamo i compagni, possibili buchi di sfogo), iniziano a montarsi con estremo piacere le due donne viticcio (anche loro, non potendosi muovere, non ricevevano tutti i giorni la visita di qualche bastone interessante). E quindi si stanno dando da fare quando le loro gambe si attorcigliano, diventano nodose e legnose e, trasformate completamente in viticci, si ancorano fermamente al suolo. I compagni, quando li ritrovano, non posso più far nulla e decidono di lasciarli là, contenti tra le braccia delle due conne vegetali. Quest’isola vuole essere probabilmente una parodia delle stranezze che si raccontava si trovassero in India: infatti, su una stele trovata dal protagonista, si legge: “Fin qui giunsero Eracle e Dioniso”. Nell’antichità si credeva che queste due figure mitologiche avessero intrapreso una campagna di conquista in queste terre esplorandole per primi (ed erano così comparati con Alessandro Magno, il primo generale greco ad arrivare in queste terre nel 326 a.C.). Inoltre, in seguito, Nonno di Panopoli, ultimo poeta alessandrino, compose un lunghissimo poema epico, le “Dionisiache”, in cui racconta proprio di questa spedizione del dio del vino anche se i riferimenti a queste due spedizioni sono anche precedenti (nelle “Rane” di Aristofane e su numerosi mosaici).

La ciurma fa appena in tempo ad allontanarsi dalla costa quando un gigantesco tornado butta in aria la nave e lì, navigando sulle ali del vento, raggiunge la Luna, come prima era successo nel romanzo di Antonio Diogene (elemento che ci fa pensare che “Le Avventure al di là di Thule” siano anteriori al lavoro di Luciano). Il re Endimione, anch’egli umano di origine, li accoglie e li invita a unirsi a lui nella guerra contro Fetonte, il re del Sole, e il suo popolo. E così scoppia una vera e propria battaglia spaziale in cui i combattenti sono a cavallo di avvoltoi-cavalli, pulci giganti e altri strani animali che si conclude con la sconfitta dei guerrieri lunari a causa dell’arrivo tempestivo di un gruppo di centauri giganti che danno man forte ai soldati solari. Ma per fortuna Fetonte è un re buono e generoso, pronto a riconoscere il valore dei Greci e dei lunari e a lasciarli vivi anche se soggetti a qualche restrizione. Segue la curiosa descrizione del popolo spaziale della Luna: mezzi uomini e mezzi vegetali si riproducono tutti senza l’aiuto di donne. Infatti o seminano un testicolo nel terreno oppure si accoppiano tra uomini nonostante l’assenza di ani (non chiedete come facessero a fare la cacca però): un pratico buco nel ginocchio farà in modo che lo sperma arrivi fino alla coscia che rimarrà gravida ( questa parte in greco è anche detta ventre della gamba e, come vuole la tradizione mitica  riportataci da Ovidio, anche il dio Dioniso nacque così da Zeus che riuscì a mettere in salvo il feto estraendolo da Semele, l’amante con cui si era accoppiato sotto forma di pioggia dorata, prima che sua moglie Era gelosa la incenerisse con un fulmine. Sì, sotto forma di pioggia dorata. Sì, non siete i soli ad aver pensato a questo). Inoltre questi buffi abitanti presentano qualcosa come un cavolo sulla schiena ( mancava giusto il colore verde per essere dei perfetti esemplari di bulbasaur) e hanno la pancia vuota foderata di pelo, tipo marsupio dei canguri, per metterci dentro i bambini in modo che non prendano freddo (in alternativa i panini si conservano belli tiepidi fino alla pausa pranzo).

Dopo un po’ i nostri eroi cominciano lentamente a scendere verso la terra. Ma, prima di raggiungere la superficie, planano sull’isola delle lanterne (in cui si fermerà pure Pantagruele nel libro quinto del “Gargatua e Pantagruele” di Rabelais). Qui le lanterne di tutti i tipi e misure devono presentarsi all’appello fatto di continuo dal patriarca pena lo spegnimento (e dunque la morte, giustamente). Su quest’isola Luciano incontra pure quella di casa sua e ne approfitta per chiedergli notizie sulla moglie. Infatti le lanterne hanno un forte doppio senso sessuale: esse vegliano, come osservatrici silenziose, sulle donne che, lasciate (finalmente) sole dal marito, ne approfittano per farsi riempire come tacchini il giorno del ringraziamento dai vari amanti (questo è un motivo ricorrente nella tradizione arcaica, si veda il lamento di Fedra nell’ ”Ippolito” di Euripide, per dire).

Finalmente Luciano e la sua ciurma riescono a toccare l’acqua dell’oceano, ma c’è ben poco da star tranquilli. Infatti ecco spuntare all’orizzonte un banco di balene gigantesche di cui la più grande di tutte li inghiotte in un sol boccone (sulla tradizione delle balene nella cultura mitica parlerò più avanti). Tutti ormai pensano di dover morire tra atroci dolori sciolti (opzione ritenuta molto comoda dai mafiosi, a detta loro almeno) nei succhi gastrici dell’animale o schiacciati dalle sue fauci ma, fortunatamente, i denti del cetaceo (ai tempi pensavano che questi mammiferi marini avessero la dentiera) non polverizzano né loro né la nave e, invece di finir digeriti, fanno naufragio su un’isola che riposa nello stomaco della bestia (ma avete idea di quanto non sia difficile trovare tre sinonimi di balena da mettere nella stessa frase evitando ripetizioni? Non osate lamentarvi della complessità dei periodi, sia chiaro!). E, come se la situazione non fosse abbastanza paradossale, qui un vecchio, Scintaro, con un giovane di nome Cinira, entrambi naufraghi,  conduce una vita tranquilla coltivando un piccolo pezzo di terra e sopravvivendo grazie ai relitti che scampano all’enorme dentatura della balena. Ma la vita non è di certo rose e fiori per i due umani: infatti sono circondati da bellicose popolazioni di uomini-pesce (il kebab Luciano non lo mangiava, se lo fumava direttamente) che mal sopportano i due malcapitati. Allora la ciurma del protagonista, che intuisce che dovrà sopravvivere a lungo, in un modo o nell’altro, su quel lembo di terra, decide di sterminare la razza nemica (che strano, una popolazione meravigliosa e misteriosa vive su un’isola dentro a una balena in mezzo all’oceano, sterminiamola!) e, a liscate di pesce (sì, combattono usando la colonna vertebrale dei loro simili. Forse se decidono di sterminarli un motivo c’è), riescono a sterminare i nemici perdendo soltanto il timoniere, colpito alla schiena a tradimento, che verrà poi rimpiazzato in seguito dal vecchio Scintaro accompagnato da Cinira.

Il tempo comincia a passare e i nostri eroi si adeguano alla vita nel ventre del mostro. Un giorno che la balena tiene aperta la bocca per respirare un po’ più del solito (l’unico modo con cui potesse arrivare luce là dentro) assistono a una battaglia navale di dimensioni epiche! Dei giganti dalla chioma di fuoco, usando intere isole come navi, si scontrano ferocemente all’ultimo sangue proprio di fronte all’animale. Alla fine di questo sorprendente scontro i vincitori raccolgono le isole-navi avversarie e le appendono, come un trofeo commemorativo, sulla fronte dell’animale. La nostalgia della libertà fa fremere i nostri eroi che, da troppo tempo reclusi nell’animale, desiderano sempre di più uscire dalla prigionia della balena: l’ unico problema è cogliere l’ occasione giusta. E così si chiude la prima parte del romanzo. Dopo l’intervallo il secondo tempo!


Avevamo lasciato i nostri eroi insoddisfatti della loro vita nel corpo del mostro dopo aver assistito alla battaglia dei giganti con la chioma di fuoco. La ciurma decide dunque di scappare uccidendo la balena con un incendio che sarebbe dovuto scoppiare nell’isola all’interno dello stomaco. Riescono nell’intento e si allontanano dalla bocca del mostro, aperta per via delle volute di fumo asfissianti con Scintaro come nuovo timoniere e Cinira.

 Dopo una breve capatina su un isola deserta in cui vivono dei tori con gli occhi sulla punta delle corna (come avrebbe voluto Momo, il dio criticone, a cui non andavano bene come Zeus li aveva fatti), cercano di prendere il largo ma vengono prontamente bloccati da un vento così terribile da ghiacciare l’intero oceano (i riferimenti alla fredda Thule sono abbastanza evidenti). Dopo aver scavato nel ghiaccio per estrarne dei pesci di cui cibarsi riescono a liberare la nave e a farla pattinare sulla lastra scivolosa fino a tornare in acqua normalmente.

Dopo non troppo però il colore dell’oceano cambia, diventa bianco, e la consistenza si fa più densa (non pensate male, per favore, non si tratta di “Amore Liquido”). Si tratta infatti del mare di latte che circonda Galatea (Bianca in greco), una forma di formaggio così grande da sembrare un’isola! Sopra, come nell’isola del vino, tutto è collegato con ciò che riguarda il magico e interessantissimo mondo dei latticini, dai fiumi agli alberi.

Sulla via per l’isola successiva notano in mare degli uomini che passeggiano sulla superficie dell’oceano. Si tratta di una curiosa popolazione con dei pezzi di sughero al posto dei piedi, proveniente dalla vicina Sugheria, che saluta la ciurma allegramente. Ma Luciano e i suoi non hanno tempo di fermarsi troppo, sono invece attratti da una nuvola di profumo che li porta sulla terra dei Campi Elisi (l’equivalente del nostro Paradiso), in cui incontrano tantissimi eroi dei poemi omerici (Menelao, Elena e Ulisse) accanto a filosofi (Pitagora e Platone) e uomini di cultura vissuti nei secoli passati (questi citati sono solo alcuni, ovviamente, però del loro ruolo e della loro caratterizzazione parlerò più avanti nel testo). Mentre tutti si rilassano e hanno modo di incontrare e intervistare varie figure di spicco del passato (celebre il dialogo tra Luciano e Omero) il giovane Cinira, preso da un’ erezione incontenibile in mezzo a tante belle donne (e come dargli torto dopo aver passato anni da solo con il vecchio Scintaro) è fuggito con la bella Elena (proprio quella strafigona che aveva scatenato la guerra di Troia dell’ “Iliade”), sulla formaggiosa Galatea con un giocoso rimando ai poemi omerici (e al liquido bianco, sì, come volete). Mentre Elena viene perdonata, come nell’antichità (il discorso su cosa si pensasse del personaggio è molto interessante e dovrei approfondirlo), piante poche lacrime da coccodrillo, Cinira, ritenuto colpevole di tutto, viene portato sull’isola dei dannati dove sarà appeso per le palle (che comunque lo tenevano tutto attaccato). I nostri eroi, però, a causa della bravata del giovane, sono esiliati dall’isola e, prima di andar via, Omero ( che ci vede benissimo in contrasto con la tradizione che lo voleva cieco), incide una lapide per il protagonista che recita:

Luciano tutto di qui, amico agli dei beati,

vide, e di nuovo tornò al paese natio.

Questi pochi versi sono per noi importantissimi: è infatti l’unica volta che ci viene detto il nome del protagonista, nonché dell’autore dell’opera, non lasciando alcun dubbio sulla paternità dell’opera (almeno per una volta, ecchecazzo!).

Una volta partiti sono costretti a passare per la terra dei dannati: oltre a Cinira sono torturati altri personaggi di cui parlerò dopo. I nostri protagonisti, dopo una breve sosta nell’ evanescente paese dei sogni, sbarcano sull’isola dell’ immortale ninfa Calipso, l’amante di Ulisse per un annetto prima che questi facesse con calma ritorno ad Itaca (come ci racconta Omero nell’ “Odissea”) per consegnarle un bigliettino da parte dell’eroe omerico da cui era stata tanto piacevolmente incaprettata. Nella lettera Ulisse si lamenta di come si stesse bene su quell’ isola lontano dalla moglie, dai problemi di politica e da altre gravose questioni, passando una dolce immortalità a strombazzare come se non ci fosse un domani e le promette che un giorno l’avrebbe raggiunta per farle risentire che sapore avesse il bastone di Itaca.

La navigazione si fa sempre più irta di pericoli pericolosamente pericolosi: Luciano e il suo equipaggio, miracolosamente sfuggiti agli zuccopirati e ai nocenauti, banditi a bordo rispettivamente di zucche e noci giganti, e a briganti che, cavalcando delfini grandi come cavalli, li bombardano con occhi di granchio e seppie secche, giungono infine a un enorme nido di gabbiano che galleggia sull’ acqua. Dopo essere sfuggiti al gigantesco animale che, con la potenza delle sue ali, rischiava di farli naufragare, si ritrovano di fronte a una intricatissima foresta di alberi galleggianti privi di radici. Per superarla sono costretti a issare la nave sul tetto di foglie e a farla scorrere sopra (questo episodio, insieme a quello del ghiaccio, potrebbe essere un riferimento alle “Argonautiche” di Apollonio Rodio in cui una nave è traportata in modo simile nel deserto del nord Africa).

Giunti dall’altra parte, passati sopra un ponte d’acqua che si estendeva sopra un enorme baratro le cui pareti erano formate da cascate che cadevano a precipizio, si trovano sull’isola dei Testadibue, una popolazione barbara cornuta simile ai minotauri. I mezzi animali, dopo aver attaccato l’equipaggio uccidendone ben tre membri, vengono a loro volta sconfitti dai nostri. In seguito la navigazione si fa più tranquilla: si accostano alla nave, durante la traversata, popolazioni pacifiche come quella degli uomini barca, che usano il proprio grosso (come ci dice anche il nostro sorpreso autore) pene in erezione come albero maestro per navigare nell’oceano.

Infine i nostri stanchi eroi giungono su un’isola piena di donne bellissime e vogliosissime (l’isola di Red Tube) che vogliono essere trapanate come dei mobili dell’Ikea. In realtà si trattata di streghe per metà asino che si cibano di carne umana dopo aver calmato la fagiana in fiamme. Ma il massacro viene evitato grazie al geniale intuito di Luciano (teschi spolpati e resti di carne umana sparsi per terra avrebbero insospettito pure me ammetto) che riesce ad avvertire i compagni in tempo.

Una volta partiti i nostri eroi riescono ad approdare finalmente nel nuovo continente dove si conclude la pazza “Storia Vera” di Luciano con la falsa promessa di un seguito.

E questo era tutto per quanto riguarda la trama. Come già detto nell’articolo dopo trovate il commento completo di fonti e influenze dell’opera e in cui approfondisco diversi aspetti tutti comunque molto interessanti a mio avviso. Intanto grazie mille per aver letto fin qui e per il supporto! Oltre a raccomandarvi di mettere mi piace, condividere e spargere il verbo non posso evitare di farvi notare che i commenti sono aperti a TUTTI, iscritti o meno a Google Plus, e che sono sempre molto graditi! Anzi, se andate a vedere indietro, spesso rispondo ampliando ulteriormente alcuni punti, quindi sotto a scrivere!
 
 
 
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