Salve e
benvenuti a tutti quanti! Oggi, come promesso, vi parlerò di una delle mie opere
preferite di cui già vi avevo promesso avrei parlato (visto che rimando ma poi
faccio?): la “Storia Vera” di Luciano di Samosata. Dell’autore ho già parlato in questo articolo, dove troverete tutte le informazioni necessarie per conoscere
l’autore e la sua formazione. Ma, prima di iniziare, qualche breve parola sulla
collana “A Bordo di Libro”, titolo ancora provvisorio in attesa di trovarne uno
migliore (se ne avete suggeritemi con un commento). Come avrete capito tratterò
dei viaggi più disparati e particolari della storia della letteratura ma non necessariamente
in ordine cronologico. Quindi, per dire, se per il momento non mi vedete
parlare di opere precedenti a questa, come l’ “Odissea” di Omero o le
“Argonautiche” di Apollonio Rodio, non è che me ne sono dimenticato o non ne
voglio parlare ma, come in un viaggio “on the road” all’avventura, preferisco
proseguire dove mi porta l’intuito e l’ispirazione del momento, privo di vincoli
e imposizioni di alcun tipo (la verità è che non ho avuto ancora modo di leggerli con calma)
Questo
articolo ho deciso di dividervelo in due parti, a causa della sua lunghezza,
così da renderlo più agevole: nella prima troverete la trama riassunta episodio
per episodio con varie annotazioni che poi non riprenderò nella seconda, tutta
incentrata sui modelli e le fonti di ispirazione. Inoltre, alla fine di
entrambi i brani troverete il link del blog “I Don’t Know” con cui collaborerò
per gli articoli su One Piece (ve ne parlo dopo) di cui in ogni caso
pubblicherò il link volta per volta.
L'ultima volta abbiamo visitato la fredda Thule di Antonio Diogene, arrivando ad
intravedere le lontane e misteriose coste della Luna mentre oggi ci spingeremo
ancora più in là, nel territorio dell’ignoto.
La trama è
qua riassunta in tutti i suoi
numerosissimi e fantasiosi episodi e, quindi, se proprio non volete
rovinarvi nessuna sorpresa, evitate di leggere questi due articoli e correte in
libreria a comprare il romanzo: ne rimarrete estasiati!
Il
protagonista, come si viene a sapere più avanti nell’opera, è Luciano stesso
che, dopo un breve prologo (che analizzerò dopo), ci racconta, come se si
trattasse di un diario di bordo, della sua avventura al di là delle colonne d’Ercole,
poste tra il Mediterraneo e l’oceano, verso un nuovo e misterioso continente.
Infatti non dovete pensare, come invece vuole la leggenda popolare, che gli
antichi ritenessero che la terra fosse piatta: la sfericità della terra era un
dato assodato per motivi sia scientifici sia filosofici e non aveva bisogno di
particolari spiegazioni (sono semmai gli americani che ancora oggi pensano che
l’Europa sia uno stato). Non ci vengono fornite indicazioni circa la
composizione della ciurma: i suoi membri non sono che figure prive di
importanza, come pezzetti di carta sballottati dalla corrente degli eventi. I
veri protagonisti sono i posti straordinari e fantastici visitati dal
protagonista, figura anch’essa assente dall’azione, come un semplice spettatore
mai partecipe attivamente nelle vicende.
La prima isola incontrata dai nostri eroi è
l’isola del vino, tema centrale attorno cui ogni cosa qua si modella: i fiumi
sono di vino e i pesci alcolici tanto per fare un esempio. Mentre tutti si
ubriacano in un’ allegra orgia alcolica, due membri della ciurma si allontanano
e incontrano degli strani esseri: donne dalla testa alle gambe (passera inclusa
nel prezzo) e poi ancorate come viticci al suolo. I due marinai, ingrifati come
dei bisonti del Mar Morto per il vino e la lontananza, dovuta alla mancanza
durante il viaggio di qualunque essere che avesse una fessura femminile (se
escludiamo i compagni, possibili buchi di sfogo), iniziano a montarsi con
estremo piacere le due donne viticcio (anche loro, non potendosi muovere, non
ricevevano tutti i giorni la visita di qualche bastone interessante). E quindi
si stanno dando da fare quando le loro gambe si attorcigliano, diventano nodose
e legnose e, trasformate completamente in viticci, si ancorano fermamente al
suolo. I compagni, quando li ritrovano, non posso più far nulla e decidono di
lasciarli là, contenti tra le braccia delle due conne vegetali. Quest’isola
vuole essere probabilmente una parodia delle stranezze che si raccontava si
trovassero in India: infatti, su una stele trovata dal protagonista, si legge:
“Fin qui giunsero Eracle e Dioniso”.
Nell’antichità si credeva che queste due figure mitologiche avessero intrapreso
una campagna di conquista in queste terre esplorandole per primi (ed erano così
comparati con Alessandro Magno, il primo generale greco ad arrivare in queste
terre nel 326 a.C.). Inoltre, in seguito, Nonno di Panopoli, ultimo poeta
alessandrino, compose un lunghissimo poema epico, le “Dionisiache”, in cui
racconta proprio di questa spedizione del dio del vino anche se i riferimenti a
queste due spedizioni sono anche precedenti (nelle “Rane” di Aristofane e su
numerosi mosaici).
La ciurma fa
appena in tempo ad allontanarsi dalla costa quando un gigantesco tornado butta in aria la nave e lì, navigando sulle ali del vento, raggiunge la Luna, come
prima era successo nel romanzo di Antonio Diogene (elemento che ci fa pensare
che “Le Avventure al di là di Thule” siano anteriori al lavoro di Luciano). Il
re Endimione, anch’egli umano di origine, li accoglie e li invita a unirsi a
lui nella guerra contro Fetonte, il re del Sole, e il suo popolo. E così
scoppia una vera e propria battaglia spaziale in cui i combattenti sono a
cavallo di avvoltoi-cavalli, pulci giganti e altri strani animali che si
conclude con la sconfitta dei guerrieri lunari a causa dell’arrivo tempestivo
di un gruppo di centauri giganti che danno man forte ai soldati solari. Ma per
fortuna Fetonte è un re buono e generoso, pronto a riconoscere il valore dei
Greci e dei lunari e a lasciarli vivi anche se soggetti a qualche restrizione.
Segue la curiosa descrizione del popolo spaziale della Luna: mezzi uomini e
mezzi vegetali si riproducono tutti senza l’aiuto di donne. Infatti o seminano
un testicolo nel terreno oppure si accoppiano tra uomini nonostante l’assenza
di ani (non chiedete come facessero a fare la cacca però): un pratico buco nel
ginocchio farà in modo che lo sperma arrivi fino alla coscia che rimarrà gravida ( questa parte in greco è anche detta ventre della gamba e, come vuole
la tradizione mitica riportataci da
Ovidio, anche il dio Dioniso nacque così da Zeus che riuscì a mettere in salvo
il feto estraendolo da Semele, l’amante con cui si era accoppiato sotto forma
di pioggia dorata, prima che sua moglie Era gelosa la incenerisse con un
fulmine. Sì, sotto forma di pioggia dorata. Sì, non siete i soli ad aver
pensato a questo). Inoltre questi buffi abitanti presentano qualcosa come un
cavolo sulla schiena ( mancava giusto il colore verde per essere dei perfetti
esemplari di bulbasaur) e hanno la pancia vuota foderata di pelo, tipo marsupio
dei canguri, per metterci dentro i bambini in modo che non prendano freddo (in
alternativa i panini si conservano belli tiepidi fino alla pausa pranzo).
Dopo un po’
i nostri eroi cominciano lentamente a scendere verso la terra. Ma, prima di
raggiungere la superficie, planano sull’isola delle lanterne (in cui si fermerà
pure Pantagruele nel libro quinto del “Gargatua e Pantagruele” di Rabelais).
Qui le lanterne di tutti i tipi e misure devono presentarsi all’appello fatto
di continuo dal patriarca pena lo spegnimento (e dunque la morte, giustamente).
Su quest’isola Luciano incontra pure quella di casa sua e ne approfitta per
chiedergli notizie sulla moglie. Infatti le lanterne hanno un forte doppio senso
sessuale: esse vegliano, come osservatrici silenziose, sulle donne che,
lasciate (finalmente) sole dal marito, ne approfittano per farsi riempire come
tacchini il giorno del ringraziamento dai vari amanti (questo è un motivo
ricorrente nella tradizione arcaica, si veda il lamento di Fedra nell’
”Ippolito” di Euripide, per dire).
Finalmente
Luciano e la sua ciurma riescono a toccare l’acqua dell’oceano, ma c’è ben poco
da star tranquilli. Infatti ecco spuntare all’orizzonte un banco di balene
gigantesche di cui la più grande di tutte li inghiotte in un sol boccone (sulla
tradizione delle balene nella cultura mitica parlerò più avanti). Tutti ormai
pensano di dover morire tra atroci dolori sciolti (opzione ritenuta molto
comoda dai mafiosi, a detta loro almeno) nei succhi gastrici dell’animale o
schiacciati dalle sue fauci ma, fortunatamente, i denti del cetaceo (ai tempi
pensavano che questi mammiferi marini avessero la dentiera) non polverizzano né
loro né la nave e, invece di finir digeriti, fanno naufragio su un’isola che riposa
nello stomaco della bestia (ma avete idea di quanto non sia difficile trovare
tre sinonimi di balena da mettere nella stessa frase evitando ripetizioni? Non
osate lamentarvi della complessità dei periodi, sia chiaro!). E, come se la
situazione non fosse abbastanza paradossale, qui un vecchio, Scintaro, con un
giovane di nome Cinira, entrambi naufraghi, conduce una vita tranquilla coltivando un
piccolo pezzo di terra e sopravvivendo grazie ai relitti che scampano
all’enorme dentatura della balena. Ma la vita non è di certo rose e fiori per i
due umani: infatti sono circondati da bellicose popolazioni di uomini-pesce (il
kebab Luciano non lo mangiava, se lo fumava direttamente) che mal sopportano i
due malcapitati. Allora la ciurma del protagonista, che intuisce che dovrà
sopravvivere a lungo, in un modo o nell’altro, su quel lembo di terra, decide
di sterminare la razza nemica (che strano, una popolazione meravigliosa e
misteriosa vive su un’isola dentro a una balena in mezzo all’oceano,
sterminiamola!) e, a liscate di pesce (sì, combattono usando la colonna
vertebrale dei loro simili. Forse se decidono di sterminarli un motivo c’è),
riescono a sterminare i nemici perdendo soltanto il timoniere, colpito alla
schiena a tradimento, che verrà poi rimpiazzato in seguito dal vecchio Scintaro
accompagnato da Cinira.
Il tempo
comincia a passare e i nostri eroi si adeguano alla vita nel ventre del mostro.
Un giorno che la balena tiene aperta la bocca per respirare un po’ più del
solito (l’unico modo con cui potesse arrivare luce là dentro) assistono a una
battaglia navale di dimensioni epiche! Dei giganti dalla chioma di fuoco, usando
intere isole come navi, si scontrano ferocemente all’ultimo sangue proprio di
fronte all’animale. Alla fine di questo sorprendente scontro i vincitori
raccolgono le isole-navi avversarie e le appendono, come un trofeo
commemorativo, sulla fronte dell’animale. La nostalgia della libertà fa fremere
i nostri eroi che, da troppo tempo reclusi nell’animale, desiderano sempre di
più uscire dalla prigionia della balena: l’ unico problema è cogliere l’ occasione
giusta. E così si chiude la prima parte del romanzo. Dopo l’intervallo il
secondo tempo!
Avevamo
lasciato i nostri eroi insoddisfatti della loro vita nel corpo del mostro dopo
aver assistito alla battaglia dei giganti con la chioma di fuoco. La ciurma
decide dunque di scappare uccidendo la balena con un incendio che sarebbe dovuto
scoppiare nell’isola all’interno dello stomaco. Riescono nell’intento e si allontanano
dalla bocca del mostro, aperta per via delle volute di fumo asfissianti con
Scintaro come nuovo timoniere e Cinira.
Dopo una breve capatina su un isola deserta in
cui vivono dei tori con gli occhi sulla punta delle corna (come avrebbe voluto
Momo, il dio criticone, a cui non andavano bene come Zeus li aveva fatti),
cercano di prendere il largo ma vengono prontamente bloccati da un vento così
terribile da ghiacciare l’intero oceano (i riferimenti alla fredda Thule sono
abbastanza evidenti). Dopo aver scavato nel ghiaccio per estrarne dei pesci di
cui cibarsi riescono a liberare la nave e a farla pattinare sulla lastra
scivolosa fino a tornare in acqua normalmente.
Dopo non troppo
però il colore dell’oceano cambia, diventa bianco, e la consistenza si fa più
densa (non pensate male, per favore, non si tratta di “Amore Liquido”). Si
tratta infatti del mare di latte che circonda Galatea (Bianca in greco), una forma
di formaggio così grande da sembrare un’isola! Sopra, come nell’isola del vino,
tutto è collegato con ciò che riguarda il magico e interessantissimo mondo dei
latticini, dai fiumi agli alberi.
Sulla via
per l’isola successiva notano in mare degli uomini che passeggiano sulla superficie
dell’oceano. Si tratta di una curiosa popolazione con dei pezzi di sughero al
posto dei piedi, proveniente dalla vicina Sugheria, che saluta la ciurma
allegramente. Ma Luciano e i suoi non hanno tempo di fermarsi troppo, sono
invece attratti da una nuvola di profumo che li porta sulla terra dei Campi
Elisi (l’equivalente del nostro Paradiso), in cui incontrano tantissimi eroi
dei poemi omerici (Menelao, Elena e Ulisse) accanto a filosofi (Pitagora e
Platone) e uomini di cultura vissuti nei secoli passati (questi citati sono
solo alcuni, ovviamente, però del loro ruolo e della loro caratterizzazione
parlerò più avanti nel testo). Mentre tutti si rilassano e hanno modo di
incontrare e intervistare varie figure di spicco del passato (celebre il
dialogo tra Luciano e Omero) il giovane Cinira, preso da un’ erezione
incontenibile in mezzo a tante belle donne (e come dargli torto dopo aver
passato anni da solo con il vecchio Scintaro) è fuggito con la bella Elena (proprio
quella strafigona che aveva scatenato la guerra di Troia dell’ “Iliade”), sulla
formaggiosa Galatea con un giocoso rimando ai poemi omerici (e al liquido
bianco, sì, come volete). Mentre Elena viene perdonata, come nell’antichità (il
discorso su cosa si pensasse del personaggio è molto interessante e dovrei
approfondirlo), piante poche lacrime da coccodrillo, Cinira, ritenuto colpevole
di tutto, viene portato sull’isola dei dannati dove sarà appeso per le palle
(che comunque lo tenevano tutto attaccato). I nostri eroi, però, a causa della
bravata del giovane, sono esiliati dall’isola e, prima di andar via, Omero (
che ci vede benissimo in contrasto con la tradizione che lo voleva cieco),
incide una lapide per il protagonista che recita:
Luciano tutto di qui,
amico agli dei beati,
vide, e di nuovo tornò
al paese natio.
Questi pochi
versi sono per noi importantissimi: è infatti l’unica volta che ci viene detto
il nome del protagonista, nonché dell’autore dell’opera, non lasciando alcun
dubbio sulla paternità dell’opera (almeno per una volta, ecchecazzo!).
Una volta
partiti sono costretti a passare per la terra dei dannati: oltre a Cinira sono
torturati altri personaggi di cui parlerò dopo. I nostri protagonisti, dopo una
breve sosta nell’ evanescente paese dei sogni, sbarcano sull’isola dell’
immortale ninfa Calipso, l’amante di Ulisse per un annetto prima che questi facesse
con calma ritorno ad Itaca (come ci racconta Omero nell’ “Odissea”) per
consegnarle un bigliettino da parte dell’eroe omerico da cui era stata tanto
piacevolmente incaprettata. Nella lettera Ulisse si lamenta di come si stesse
bene su quell’ isola lontano dalla moglie, dai problemi di politica e da altre
gravose questioni, passando una dolce immortalità a strombazzare come se non ci
fosse un domani e le promette che un giorno l’avrebbe raggiunta per farle
risentire che sapore avesse il bastone di Itaca.
La navigazione
si fa sempre più irta di pericoli pericolosamente pericolosi: Luciano e il suo
equipaggio, miracolosamente sfuggiti agli zuccopirati e ai nocenauti, banditi a
bordo rispettivamente di zucche e noci giganti, e a briganti che, cavalcando
delfini grandi come cavalli, li bombardano con occhi di granchio e seppie
secche, giungono infine a un enorme nido di gabbiano che galleggia sull’ acqua.
Dopo essere sfuggiti al gigantesco animale che, con la potenza delle sue ali,
rischiava di farli naufragare, si ritrovano di fronte a una intricatissima
foresta di alberi galleggianti privi di radici. Per superarla sono costretti a
issare la nave sul tetto di foglie e a farla scorrere sopra (questo episodio,
insieme a quello del ghiaccio, potrebbe essere un riferimento alle
“Argonautiche” di Apollonio Rodio in cui una nave è traportata in modo simile
nel deserto del nord Africa).
Giunti
dall’altra parte, passati sopra un ponte d’acqua che si estendeva sopra un
enorme baratro le cui pareti erano formate da cascate che cadevano a
precipizio, si trovano sull’isola dei Testadibue, una popolazione barbara
cornuta simile ai minotauri. I mezzi animali, dopo aver attaccato l’equipaggio
uccidendone ben tre membri, vengono a loro volta sconfitti dai nostri. In
seguito la navigazione si fa più tranquilla: si accostano alla nave, durante la
traversata, popolazioni pacifiche come quella degli uomini barca, che usano il
proprio grosso (come ci dice anche il nostro sorpreso autore) pene in erezione
come albero maestro per navigare nell’oceano.
Infine i
nostri stanchi eroi giungono su un’isola piena di donne bellissime e
vogliosissime (l’isola di Red Tube) che vogliono essere trapanate come dei
mobili dell’Ikea. In realtà si trattata di streghe per metà asino che si cibano
di carne umana dopo aver calmato la fagiana in fiamme. Ma il massacro viene
evitato grazie al geniale intuito di Luciano (teschi spolpati e resti di carne
umana sparsi per terra avrebbero insospettito pure me ammetto) che riesce ad
avvertire i compagni in tempo.
Una volta
partiti i nostri eroi riescono ad approdare finalmente nel nuovo continente
dove si conclude la pazza “Storia Vera” di Luciano con la falsa promessa di un
seguito.
E questo era
tutto per quanto riguarda la trama. Come già detto nell’articolo dopo trovate
il commento completo di fonti e influenze dell’opera e in cui approfondisco
diversi aspetti tutti comunque molto interessanti a mio avviso. Intanto grazie
mille per aver letto fin qui e per il supporto! Oltre a raccomandarvi di
mettere mi piace, condividere e spargere il verbo non posso evitare di farvi
notare che i commenti sono aperti a TUTTI, iscritti o meno a Google Plus, e che
sono sempre molto graditi! Anzi, se andate a vedere indietro, spesso rispondo
ampliando ulteriormente alcuni punti, quindi sotto a scrivere!
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