martedì 15 marzo 2016

I Briganti, l'Onor e la Cina io canto: "In Riva all'Acqua", tra avventura ed eroismo (pt.2)

Le vicende dei briganti, analizzate in questo articolo, assumono tinte tragiche sul finale. Pur venendo reclutati dalle truppe imperiali in seguito ad un'amnistia, dopo aver aiutato i loro nuovi alleati a respingere feroci popolazioni tribali dai confini Cinesi, vengono traditi e giustiziati senza troppe cerimonie. Ma perché succede questo? Per quale motivo si sono sottomessi ai loro nemici? Cosa voleva ottenere Song Jiang, il loro capo? Per scoprirlo dobbiamo fare un piccolo passo indietro...

Se andiamo a vedere le origini dei briganti vedremo che la maggior parte dei protagonisti è stata vittima di abusi del potere ufficiale che li ha condannati quando loro, in realtà, erano dalla parte della ragione, ma di un certo tipo di ragione... infatti si delineano due schieramenti opposti: da una parte il potere ufficiale, corrotto e mal funzionante ma che rimane saldo
Wu Song "Pellegrino"
nella sua posizione di superiorità da rispettare costi quel che costi, dall'altra una giustizia popolare vera e autentica, frutto di contravvenzioni spesso obbligatorie volte a tutelare interessi superiori, divini quasi. Una controparte orientale, si potrebbe dire, dell'Antigone di Sofocle, una tragedia classica che tratta il tema della contrapposizione tra le due visioni normative. Da notare come Song Jiang non intenda e non abbia mai voluto sostituirsi all'imperatore o ad altri dignitari: egli si vuole affiancare, se non sottomettere, riconoscendo sia l'importanza del potere ufficiale sia, allo stesso tempo, la sua ingiustizia e imperfezione. Egli cova, nascosto, il desiderio di sistemare le cose tramite ragione e buon senso, rifacendosi a un diritto comune. Invece ecco che la corruzione non cede e rimane salda sul suo scranno ufficiale. Questa cosa la si vede bene in un capitolo in cui uno dei briganti vuole risolvere le faccende tramite "il buon diritto" e finisce per ritrovarsi in guai serissimi, a un passo dalla morte, onde venir salvato all'ultimo da uno dei briganti che, più di tutti, rappresenta il concetto di giustizia popolare.

Curiosi tutti questi riferimenti al diritto, non è vero? In realtà sono comprensibilissimi nell'ottica dell'opera che ha un taglio spaventosamente giuridico: diritto penale, privato, procedurale, amministrativo ed internazionale, vi sono radunate moltissime sfaccettature giurisprudenziali, quasi a creare un quadro del diritto dell'epoca, una piccola raccolta di alcuni
Liu Tang "Diavolo Rosso"
istituti classici. In particolare l'ambito penalistico è messo in risalto ma chi ha sentito parlare del codice Tang non dovrebbe sorprendersi: in questa raccolta di leggi l'ambito della pena e della sua esecuzione è particolarmente favorito! Quindi allo stesso tempo una critica al potere ufficiale, una sua proposta alternativa e una descrizione dello stesso nei suoi istituti e funzionamenti: sorprendente!

Nel mezzo viene inserito anche il tema del soprannaturale che, ogni tanto, fa capolino tra le pagine del romanzo. Magie, entità divine e gli stessi 108 briganti sono manifestazioni di un mondo parallelo che poco sembra avere a che fare con rozzi briganti cinesi. E infatti la differenza con un'opera quale Viaggio in Oriente è evidente: lì il divino era vero e proprio protagonista, quasi l'unico, e la quotidianità faceva solo da sfondo incarnata nella figura di Porcellino. Qui, al contrario, si ha un rovesciamento con un'attenzione maggiore, quasi verista, all'ambiente circostante tralasciando aspetti divini, comunque presenti.

In generale la Giustizia divina sembra presiedere le azioni dei protagonisti. In fondo era scontato che la loro fine dovesse essere quella: si trattava di 108 spiriti che dovevano pagare una pena in terra per poter essere riammessi nell'alto dei cieli. Era indispensabile, allora, un loro sacrificio per adeguarsi a un ordine universale, maggiore, come le leggi che andavano difendendo,
che trascende dagli ideali mortali di vita.


Zhou Tong "Tirannello"
Vorrei chiudere questa breve ed imperfetta esposizione dei temi di "In Riva all'Acqua" portando il parere di un cinese autorevole: Mao Tse Tung. Inizialmente il dittatore, accanito lettore, adorava quell'opera, piena di briganti coraggiosi che, come lui, avevano combattuto contro un potere opprimente. Tuttavia, salito al potere in modo più definitivo e stabile, sempre meno umano e comunista, vide nell'opera quasi una minaccia e volle limitarne fortemente la diffusione. L'opera doveva insegnare, secondo lui, solamente l'arte di arrendersi al potere ufficiale, accettandolo in tutte le sue sfaccettature. Da questo breve giudizio ben si evince che del giovane rivoluzionario comunista, verso la fine degli anni '60, poco prima della morte, non ne era rimasta traccia.

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