Faceva
un freddo cane quel 5 dicembre, alle 6 della mattina, all'aeroporto
di Malpensa. Vestito di soli pantaloni leggeri lunghi, felpa e
maglietta (oltre la biancheria intima e le scarpe, si intende), stavo
io, scaricato davanti alla porta 4 del primo terminal, solo e
tremante come una foglia, in una mano il trolley, nell'altra il
passaporto e un solido zaino blu sbiadito di tessuto sulle spalle,
pieno zeppo di libri e vestiti. Il Myanmar, un tempo Birmania, mi
stava aspettando o, meglio, io non vedevo l'ora che l'aereo mi
portasse il più lontano possibile dalla mia città. Le pareti umide,
l'aria malsana e gli sguardi della gente di provincia si erano
rivelati un cocktail micidiale per il mio umore nell'ultimo periodo e
avevo un disperato bisogno di staccare dalla realtà. Per questo
avevo scelto, di tutti i posti, uno dei più caldi e lontani dall'occidente del
mondo. Inoltre il regime militare dell'odierno Myanmar aveva aperto
le porte al turismo da pochi anni e bisognava approfittarsene prima
che piccole realtà autentiche si trasformassero in autentiche,
nuove, caotiche Bangkok. Era la prima volta che mi recavo in un paese
problematico come quello e non sapevo, sinceramente, cosa aspettarmi.
Ovviamente qualunque mia costruzione mentale sarebbe stata, da lì a
poco, spazzata via come un castello di carte fragilmente assemblato
da un gruppo di vecchi ubriachi in uno sporco bar di Phoenix.
Diverse
ore di aereo, scalo ad Abu Dhabi, diverse ore d'aereo, arrivo a
Bangkok. Una città caotica per chi non è mai stato nei suk di
Damasco, piena di palazzoni di cemento che sovrastano una folla di
gente che, per strada, ingurgita noodles in brodo circondata da una
fitta nube di smog. Gigantografie del re campeggiano ad ogni angolo
della città, in mezzo ai vialoni, sulle facciate degli uffici
governativi: un vomitevole miscuglio di Mussolini, regina Elisabetta
II e il Grande Fratello con due fette di totalitarismo e una
spruzzata di pessimo gusto sopra. Fortunatamente rimango solo due
giorni in quella città così soffocante e opprimente per poi
dirigermi, finalmente, alla volta di Yangon, l'ex capitale della ex
Birmania, ora sostituita da Naipidaw, la città fantasma, fatta
costruire in fretta e furia dal regime per trasferirsi in questa sorta
di isola elitaria.
L'aereo
non ci mette che un'oretta scarsa, tempo di arrivare in centro,
lasciare giù il bagaglio, e sono subito fuori, sotto il caldo
cocente, tra lo smog cittadino e il caos dei cantieri pieni di operai
che tirano su alte palazzine. L'atmosfera è molto diversa, la
povertà e percepibile immediatamente, quasi palpabile, ma una
povertà felice, spensierata, di gente ignara di cosa vi sia
dall'altra parte del mondo. Lente processioni di giovani monaci,
testa rasata, sandali ai piedi e tunica rossa, raccolgono il riso
nelle ciotole per l'elemosina che tengono a tracolla mentre si
rinfrescano con grossi ventagli di velluto amaranto. Yangon ha
qualche bel tempio da offrire, in particolare la Shwedagon Paya, uno
stupa dorato gigantesco che si impone sul panorama cittadino con le
sue proporzioni mastodontiche. Moderatamente soddisfatto dalla
giornata, me ne stavo tornando in hotel tutto tranquillo, la sera,
quando, improvvisamente, la mia tranquilla vacanza prese una piega
inaspettata.
Ad
aspettarmi davanti all'hotel c'era un macchinone enorme, tutto nero,
coi vetri oscurati. Leggermente intimidito, facendo finta di nulla,
passai oltre ma non feci in tempo a metter piede nella hall
dell'albergo che si aprì la portiera e ne uscì un birmano basso e
grassoccio, difficile dire l'età. Anche se il buio regnava, unico
padrone, sulle strade di Yangon, indossava dei grandi occhiali da
sole neri, in tinta con la macchina. Mi guardò con attenzione ed
emise dei suoi simili a un "A yiu miste Giadina?". Sul
subito non capii, la pronuncia era decisamente pessima e ero molto
provato dalla giornata. "A yiu miste Giadina?" tuonò,
decisamente più seccato di prima. Con un piccolo sforzo capii che ce
l'aveva con me e, sudando freddo, gli risposi "Yes, it's me".
Apparentemente soddisfatto, le labbra serrate in un sorriso
professionale, aprì la portiera accanto all'autista e, con un secco
ma deciso movimento della testa, mi invitò a mettermi seduto. La
mamma mi ha sempre detto di non accettare caramelle dagli
sconosciuti, ma non aveva mai accennato a fondine che spuntano in
modo tattico dalle giacche. Sudando freddo copiosamente,
trattenendomi dall'urlare come un dannato, mi sedetti rigidamente sul
sedile, lo sguardo fisso davanti a me, tutti i 752 muscoli contratti,
lo stomaco attorcigliato, tutto annullato. Egli si sedette accanto a
me e, sfoderando un sorrisone a 48 denti rossi annullati dal betel,
mi porse la mano dicendo "Nay Min Ko". Rimasi paralizzato
qualche istante, poi accennando un pallido sorriso decisamente poco
convincente ricambiai il gesto senza aprir bocca. Il viaggio fu breve
ma sembrava durare secoli. Percorremmo silenziosamente gli affollati
vialoni di Yangon verso nord, in direzione della Shwedagon, per poi
svoltare in un viottolo fiancheggiato da ambasciate e ville lussuose.
Ovviamente non dicevo nulla, ci mancherebbe altro, ma dentro di me mi
era ben chiaro che qualcuno mi cercava, qualcuno non di poco conto.
Ma chi? Chi poteva desiderare la mia presenza in Myanmar, a Yangon, l'8 di dicembre? Finalmente spuntammo su uno stradone deserto dove
ci fermammo ai lati, aspettando che un grigio cancello, fiocamente
illuminato da due lampioncini, si aprisse dall'altra parte. Non
riuscii a scorgere nulla, nel mentre l'auto prudentemente entrava
dentro, ma con la coda dell'occhio intravidi una bandiera rossa. La
macchina fece qualche metro e si fermò in un ampio piazzale dove un
maggiordomo, elegantemente vestito con una livrea di gusto
occidentale, simile a un marinaretto, mi aprì la portiera.
Disorientato uscii ed egli, con un sorrisone a 59 denti, mi disse, in
un inglese a dir poco impeccabile "The Lady is waiting for you.
Would you please follow me inside, sir?" e mi condusse
attraverso un giardino curatissimo, camminando su un sentierino di
ciottoli illuminato dalla fioca luce dei lanternini, fino a una bella
casa occidentale a due piani. Salii i due gradini che portavano alla
veranda quando la porta si aprì e mi venne incontro San Suu Kyii.
Se
qualcuno mi chiedesse ora perché non sono cascato a terra svenuto,
sinceramente non saprei rispondergli. La situazione era così irreale
da superare qualunque barriera logica e razionale. Ricordo
chiaramente di come mi chiese, sempre in inglese (da qui in poi
traduco tutto in italiano per comodità) come fosse andato il viaggio
e se volevo una tazza di tè. Invece qualunque traccia di una mia
risposta è annullata dalla mia mente, terrorizzata e annichilita
dall'improvvisa apparizione. I ricordi si fanno più vividi da quando
mi sono seduto su una bianca poltrona di pelle nell'accogliente
salotto che si affacciava sul lago Inya. Quella sera parlò lei per
lo più, la mia lingua era come paralizzata, e vi riporto tutto il
dialogo come una sorte di monologo, omettendo i miei commentini
imbarazzati ed estremamente confusi:
"Spero
che tu abbia fatto un buon viaggio. Dov'è che hai fatto scalo per
arrivare fin qui? A Bangkok, no? Ti è piaciuta? Non sopporto tutto
quel traffico, lo smog che si deposita sulla gente, i grattacieli che
incombono sui cittadini, proprio come quel furbone del loro re.
Quando lavoravo all'Onu ho avuto a che fare con lui: un personaggio
veramente sgradevole, viscidamente all'antica, pieno di soldi ma poca
voglia di risollevare le sorti del suo popolo. Non che qua la
situazione sia molto meglio, anzi, immagino che tu sia più che
informato... la vita ti mette di fronte a delle scelte: la famiglia o
la patria? L'amore o il dovere? Tu o gli altri? Io ho sempre fatto la
seconda scelta, ogni volta, e oggi mi trovo qui, ultrasettantenne,
vedova, quasi prigioniera in un paese che mi ama e mi odia allo
stesso tempo, detestata dai miei stessi figli, vista con diffidenza
da una parte del mondo occidentale che si aspettava chissà
cosa da me... che ho fatto della mia vita? Spesso me lo
chiedo. La colpa di tutto questo non è della gente,
loro credono ciecamente in me e non riesco a soddisfare la loro
inestinguibile sete di democrazia. Chiusa in questa casa,
l'unico svago sono i libri che leggo a decine,
accumulandoli uno dopo l'altro. Ed è così che ho conosciuto te:
cercavo un commento al libro del santo Rondine Rossa
(per chi non sapesse di cosa sto
parlando faccio riferimento a questo) e l'unica cosa che ho
trovato è stato il tuo racconto liberamente ispirato.
Essendomi piaciuto così tanto mi sono letta, lentamente,
tutti i tuoi articoli, cercando di rispolverare il mio italiano un
po' arrugginito, e quando ho visto che saresti venuto
proprio qui, a Yangon, ti ho fatto venire a prendere immediatamente!
L'anno scorso avevi delle buone aspettative ma, ti sarai accorto, ti
sei molto sottovalutato e, in cuor mio, leggendo i tuoi ultimi
articoli penso che la cosa non sia cambiata, vero? La modestia è
un'ottima arma, soprattutto se sincera, come nel tuo caso! Hai il
dono di riuscire a farti un sacco di amici lungo il tuo percorso:
quel Sommobuta, ad esempio, piuttosto che il Panda del Laboratorio di
Vegapunk, Sabaku che ti ha addirittura dedicato un video, poi quel
canale musicale, come si chiamava? Ah sì, Beyond the Record! Non
solo, ti sei messo pure in contatto con quel Dall'Orto per le
presentazioni di quel saggio. Tutte cose che, se te le
avessero dette A Novembre del 2014, non vi Avresti mai creduto.
E poi il premio Boomstick che hai vinto, chissà se quest'anno
riuscirai in qualche modo a riaggiudicartelo! Vedo anche che hai
cominciato a riscrivere i vecchi articoli, come promesso: un ottimo
modo per non far invecchiare il blog e togliere le impurità! Poi si
sono aggiunte tante rubriche, ciascuna molto importante per te, e ti
sei pure avviato su Youtube. Sono certa, però,che di tutti il passo
più importante sia stato quello di mostrare il tuo volto. Ogni
insicurezza è passata, hai preso molta più confidenza, hai deciso
di essere pienamente te stesso, nel corpo e nello spirito!
Questa, forse, il passo avanti più forte del 2015, pari solo
all'apertura del blog stesso. Inoltre noto che viaggi molto e, per me
che sono rinchiusa qua, la tua sete di condivisione è una comoda
finestra pure per me, che fa giovane ho viaggiato moltissimo! Ma
dimmi, per l'anno prossimo? Non hai in mente progetti? Qualcosa mi
dice che ti stai attivando per sfruttare al massimo le tue conoscenze
e fartene di nuove: amici, creativi e colleghi, tutti quanti uniti
per nuovi progetti! Le vie del futuro sono infinite: è inutile fare
tanti progetti, qualunque essi siano, se ci si impegna, non solo
saranno portati a termine ma risulteranno tutti più che
soddisfacenti, ne sono certa! Il tempo deve fare il suo corso, lo
stile cambia, e con lui i contenuti. Come diceva anche il buon
Rondine Rossa, segui sempre il tuo cuore!"
Cancello dell'abitazione di San Suu Kii. 9 dicembre 2015. |
Il
racconto finisce qui. Certo, non è una di quelle cose che di solito
si dice in fondo ai libri, ma oggi va così. Non è, ovviamente,
sufficiente dal punto di vista narrativo: la gente normale a fare un
racconto breve ci mette mesi, io 4 giorni: che potevate pretendere?
L'ho scritto molto in fretta, appena tornato dal viaggio, e
sinceramente mi serviva per ringraziare tutti quelli che hanno
creduto in me fin'ora. E non è un grazie qualunque. Nel racconto
avete letto qual'è stata la mia più grande conquista di quest'anno,
e non è affatto sottile, proprio sul piano personale. Il mio augurio
di buon anno va a tutti voi, se vi impegnate sono certo che anche i
vostri sogni si realizzeranno, proprio come il mio!