domenica 2 ottobre 2016

L'abbraccio Toscano (Potpourri Orbetellano in salsa Maremmana)

È da quando sono andato ad Amsterdam per Pasqua che non ho fatto grandi viaggi. La settimana passata però sono tornato dopo 2 anni in Toscana, più precisamente a Orbetello, in Maremma. Non so se l'ho mai detto qua, ma affondo parte delle mie radici proprio in questa cittadina alla base del Monte Argentario. Per molti anni ho passato vacanze e festività qui, sviluppando un certo senso di appartenenza con la zona. Tuttavia non ho mai sentito l'esigenza di parlarne se non con qualche post su Facebook e quindi, oggi, eccomi qua con qualcosa che non vuole essere un racconto di viaggio e nemmeno la descrizione di un paesaggio. Quando torno in Maremma ci sono dei punti fissi, delle piccole certezze, che mi fanno sentire a casa: chiamatele emozioni, sensazioni o illusioni, per me rimangono comunque importantissime. Non posso che parlare di Orbetello e del Monte Argentario con Porto Ercole e Porto Santo Stefano in questo modo. Non è una guida di viaggio ma, al tempo stesso, lo è. Prendete questo racconto per qualcosa di molto personale, nella speranza vi piaccia.

La prima cosa che si nota, soprattutto viaggiando in treno, è il cambio repentino e fluido di paesaggio. La Pianura Padana con le sue verdi risaie scorre via, nella luce del primo pomeriggio, e dopo qualche galleria, intervallata da flebili respiri montani, lascia il posto alla scoscesa Liguria, piena di fiori lillà e palme da un lato, dall'altro il mare, piatto come una tavola. Le montagne spariscono, un ultimo tunnel e poi una pianura di erba verde puntellata di alberi e canneti, inizio di un cambiamento ben più radicale. Più si scende più compaiono cespugli, rovi, arbusti e poi lei, la pianta più rappresentativa di tutte: il pino marittimo. Larghi ombrelli verdi dal caratteristico profumo, costeggiano le strade d'asfalto grigie mentre il caldo, secco e gradevole, accarezza la pelle. Il tappeto ramato di aghi secchi, le piccole pigne come punti scuri, le radici che scavano il terreno e spaccano il cemento. Ho imparato ad apprezzare i mutamenti della flora solo col tempo, ma dopo 20 anni riesco, finalmente, a percepire la poesia di un albero che muta aspetto.


Dalla finestra del soggiorno si vede il Monte Argentario, massa di roccia verde che si erge in mezzo al mare, collegata alla terraferma da due strisce di sabbia. Le lagune che racchiude, enormi vasche di acqua salata, ne rispecchiano la forma dolcemente declinante verso il mare. Sopra Port'Ercole, tra i forti spagnoli che osservano la baia, numerosi ulivi, coi loro riflessi, donano il nome alla zona mentre in lontananza è possibile scorgere l'isola del Giglio. Il vento soffia tra le strade del borgo Spagnolo . Tutto tace. Nel porto sottostante, riparate dalla baia, le barche dei pescatori ondeggiano vuote.

La sera, le mura di Orbetello, si affacciano sullo specchio nero delle lagune, rotto dai riflessi infuocati dei lampioni accesi. Il rimestio delle onde accarezza la dolcezza della sera e l'odore salmastro dell'acqua salata solletica il naso. Intorno il silenzio, qualcuno lontano passeggia chino, dietro niente auto. Il mulino riposa. poco distante, invisibile tra le acque.

Sulla spiaggia calda di fine settembre si rompono le onde cristalline di un mare quasi piatto. L'estate si allontana e con lei molte certezze: tutto cambia, anche ciò che può sembrare eterno. Nel profumo della pineta dietro di me ritrovo una sicurezza nelle cose di sempre a lungo sottovalutata. Come ritornare a casa dopo tanto tempo, guardarsi indietro e capire che fino a quel momento non si ha sbagliato ma da ora in avanti non bisogna mai mollare. Viaggiando si possono creare tante case se si sa apprezzare e comprendere il valore di quello che ci circonda.



Postilla


Per motivi personali ci ho messo un po' a scrivere questo breve articolo e per me ha completamente cambiato di significato. Capita di affrontare momenti un po' particolari. Non per forza confusi, quest'ultimo nello specifico non lo è stato, ma è comunque stancante. Tuttavia, come passa la tempesta per lasciar posto alla luce del mattino, così con un sorriso sulle labbra affronto il futuro, finalmente fiducioso e senza ansie. Grazie a tutti voi che mi seguite e avete letto l'articolo. 

domenica 11 settembre 2016

Ho visto Pink Flamingos... e mi è piaciuto!

Ho visto "Pink Flamingos", meglio conosciuto come "Fenicotteri Rosa" in Italia. Se non avete mai sentito prima il titolo dovete sapere che questa pellicola viene considerata, per dirla all'inglese, "The Mother of trash movies". John Waters nel 1972 è riuscito a creare un prodotto così affascinante e offensivo da essere ricordato per anni se non come uno dei peggiori film della storia, sicuramente il più trash!

Protagonista della pellicola è Divine, una drag queen divenuta celebre grazie a questo film e, in seguito, come cantante di musica disco tra gli anni '70 e '80. Personaggio da sempre esagerato e controverso, ha inaugurato il modello di drag "alla Platinette": mentre tutte le drag occidentali puntavano ad essere "miss qualcosa" il suo obbiettivo era di essere "la Godzilla delle drag queen". Divenne così celebre che la stessa Disney si ispirò a lei per creare il personaggio di Ursula, l'acerrima nemica di Ariel ne "la Sirenetta". Esagerata in ogni sua manifestazione, si trovò completamente a suo agio ad impersonare Babs in "Pink Flamingos", "the filthiest woman alive" (la donna più marcia al mondo). Nel film, in seguito alla troppa fama, si rifugia a vivere in una roulotte rosa shocking nella periferia di Phoenix insieme alla madre con uno strano fetish per le uova, la compagna di avventure Cotton e a Crackers, figlio hippie e con una passione per i polli (sì, in quel senso). A metterle i bastoni tra le ruote saranno i coniugi Marble, una coppia spietata che ambisce al titolo di re del marcio: rapiscono giovani donne, il loro servo transessuale le mette incinte e vendono i bambini a coppie di lesbiche. In poche parole, quello che Adinolfi e la Meloni si aspettano che accada con l'approvazione del matrimonio egualitario! 

(nel prossimo trafiletto SPOILER ma il finale non è così importante)


La trama consiste in una serie di vendette, una più assurda dell'altra, finché Divine non arriverà a risolvere la vicenda eliminando la coppia di fronte a una stampa estasiata. La pellicola si chiude con la scena che rese famosa Divine al livello internazionale: per coronare il so trionfo come "filthiest woman alive" mangia, di fronte alla telecamera, un escremento di cane appena depositato sul marciapiede. Come in seguito chiarito, non si trattava di una sua perversione né provò alcun tipo di gioia nel compiere quel gesto, "semplicemente era scritto sul copione". Tuttavia questo gesto la portò sulla bocca di tutti e creò un vero scandalo: forse nessuno ha mai più fatto qualcosa di così genuinamente scioccante di fronte alla cinepresa!


Fatto sta che Pink Flamingos, piaccia o meno, fa maledettamente bene il suo lavoro: scioccare e disgustare. John Waters, il regista, non è uno sciocco ed era ben conscio del valore della sua pellicola che, ci tengo a precisarlo, risale addirittura al 1972. Divine diventa così un'icona hippie, punk con 10 anni anni di anticipo. Come testimonia una sua intervista del 2010, Pasolini fu un punto di riferimento per lui e "Salò", del 1975, non fa che confermare questo tipo di intesa. Intesa che si sviluppa sul triplice asse De Sade-Pasolini-Waters. Tutti e tre hanno un obbiettivo (gli ultimi due in particolare nelle pellicole di cui parliamo oggi): portare il male dell'umanità a galla. Che sia tra le pagine di un libro o sul grande schermo, che ci piaccia o meno, questi tre autori portano lo stesso messaggio in tre modi diversi: narrazione, tragedia e commedia, l'uno complementare rispetto all'altro. Mentre guardavo la pellicola mi è capitato più volte di pensare "Cavolo, ma questo è De Sade" traendo le mie conclusioni non solo da quello che vedevo ma anche da quel che sentivo.


A questa lettura andrebbe aggiunta quella punk di rottura col passato, di capovolgimento di regole e valori. Già la drag queen è ribaltamento dell'ordine comune, Divine riesce a "ribaltare il ribaltamento" con il suo modo di fare e la forza trasgressiva che la contraddistingue. Divine non fa "schifo", vuole "far schifo". Che ci piaccia o meno il movimento hippie è stato il primo filone di rottura con la tradizione classica del dopoguerra, una delle prime opposizioni concrete al sistema che partono fin dagli anni '50. Sicuramente la comunità LGBTI deve a Divine una certa visibilità, sebbene non sia stata un faro nella lotta dei diritti. Oggi Harris Glenn Milsted, in arte Divine appunto, è morto ma la comunità ha già una sua permanenza stabile nella società da diversi anni. E questo, nel bene e nel male, grazie anche a lei. 

Il film è, ad oggi, inedito in Italia ma non all'estero. Tuttavia online s trova abbastanza facilmente una versione sottotitolata in italiano con tanto di contenuti extra (il commento di Waters a molte scene). Alla fine Pink Flamingos mi è piaciuto. Non è di certo un film da primo appuntamento, però lo trovo brillante e geniale in quel che vuole fare: schifo. 

sabato 3 settembre 2016

Da dove viene la satira?

Noi siamo figli della storia come tutta la cultura che ci circonda, compresa la risata. Recentemente si è molto parlato di satira, diritto alla satira, onnipotenza della satira, centralità della satira. Ma la satira cos'è? Dove finisce la satira e inizia il buon gusto? Non posso rispondere a tutto insieme ma iniziamo a vedere insieme, ovviamente per sommi capi, dove nasce la satira.



La satira NON nasce nel mondo latino. O almeno, non la satira come la intendiamo noi oggi. "Satura tota nostra est" scriveva Quintiliano in un noto passo, citando Lucilio come il fondatore di quest'arte di cui Orazio fu il suo più celebre successore. Il termine "Satura" fa riferimento a "Satura Lanx", un vassoio pieno di primizie da offrire agli dei. Ma già nell'altissimo Medioevo, come attesta Isidoro di Siviglia, non si era certi di questo significato. Il concetto base era, comunque, un insieme di cose, di argomenti diversi, di elementi dispari mischiati assieme. Ma di certo non la presa in giro spietata che, come vedremo tra poco, nasce nel 1700.

Facciamo un passo in avanti al Medioevo che concepiva una risata completamente diversa: il Carnevale. La cultura popolare che dilagava nei così detti "secoli bui" era diffusa tra tutte le classi sociali, dallo sporco popolano all'altrettanto sporco ma più decorato nobile. Una comunione di risata e di spirito che investiva tutta una comunità più volte l'anno in periodi diversi e prolungati. Una beffa continua, comune, in cui tutti ridevano di tutti, in netta contrapposizione alla normalità, alla rigidità della quotidianità. Il mondo alla rovescia colpiva tutti gli ambienti, anche quelli ecclesiastici con fenomeni come il "risus paschalis" e varie parodie di messe e celebrazioni liturgiche in chiave buffonesca. Insomma, il punto fondamentale è la comunione di risata, l'indifferenziazione sociale continua e duratura per determinati periodi in contrapposizione al mondo normale. Senonché, col passare degli anni, questo inizia a prendere nettamente posizione sopra il Carnevale schiacciandolo e riducendolo sempre più. Il nobile, presto seguito dal borghese, si stacca dal mondo popolare e si astrae socialmente su un piano più elevato, diverso, di netta superiorità morale e materiale.



Il 1700 è il secolo in cui questa tendenza, per motivi storico-sociali, si solidifica sempre più fino a fossilizzarsi. Il Carnevale perde il senso e nasce, quindi, una nuova forma di comicità: la satira, appunto. Questa è indirizzata, come oggi, verso i potenti, i regnanti, i nobili. A produrla non sarà il ceto basso ma medio alto che si avvale di una cultura superiore. Tuttavia le immagini, così grottesche e ridicole, erano di facile comprensione anche per il popolano, che quindi partecipava come spettatore al riso. Una risata, quindi, che va dal basso verso l'alto, unidirezionale, e non comune. Non vi è autoironia ma solo un bersaglio da colpire il più forte possibile. La satira nasce qui.

Col tempo questa forma di presa in giro si è solidificata ed allargata, accostandosi anche ad altri generi di ampio raggio, che coprono più persone contemporaneamente a più livelli. Si è passati a prendere in giro intere culture, non senza una certa supponenza intellettualoide alle spalle, religioni e popoli. Per questo sentir parlare di satira legata a Charlie Hebdo mi fa storcere il naso: nelle vignette vedo sempre più un mirino puntato sui più invece che sui diretti responsabili. La caricatura di un imprenditore che
mangia una lasagna fatta di cadaveri e cemento è satira. Raffigurare italiani stereotipati coperti dal sangue no, secondo me. È solo pessimo gusto. Perché dando per scontato (cosa che comunque non è nella nostra società) il diritto di espressione, sopraggiunge poi il diritto alla critica. La stessa presa in giro nei suoi termini, modi ed espressioni può essere criticata o, a sua volta, presa in giro. Ma che la satira debba essere universale e sempre garantita per definizione è una convinzione frutto più di frase fatte che di una seria preparazione sui limiti della parola e della sua forza.


Il mio invito è proprio questo, anche per il futuro. Siate critici. Non limitatevi alla mera constatazione di un fatto (Charlie Hebdo è libero di pubblicare quello che vuole) ma abbiate il coraggio di criticarlo (che non vuol dire per forza in negativo, può anche essere in positivo) argomentando, che a vedere la realtà siamo capaci tutti. Grazie.

venerdì 5 agosto 2016

La Leggenda dei 47 Ronin

Nel 1701 nasce la più importante delle leggende giapponesi. Asano Takumi, il daimyo (signore locale) a capo del clan En-ya, profondamente offeso nell'onore, cerca di uccidere il malvagio Kira, un ministro corrotto alla corte dei Tokugawa che l'aveva offeso ingiustamente per non avergli portato
dell'oro. In seguito a questo gesto, sebbene fosse evidente che il cortigiano, accecato com'era dall'avarizia e dall'ingordigia, fosse nel torto, l'imperatore non poté far altro che revocare il titolo ad Asano, confiscargli tutti i beni e, ordinandogli di fare Seppuku, sciogliere il clan En-ya. Il giovane sovrano, dopo aver dato l'estremo addio alla giovane e bellissima principessa, si dà la morte secondo il cerimoniale. Tuttavia i 200 samurai al suo servizio, da oggi ronin, guerrieri senza padrone, decidono di vendicarlo. Solo 47 di loro saranno però abbastanza fermi nel loro intento da portare a termine il progetto organizzandosi. Riusciranno a compiere la loro missione eliminando Kira e tutta la sua discendenza ma a un caro prezzo: l'imperatore si vede costretto, infatti, a condannarli a morte per aver ucciso un nobile. Solo il più giovane, di appena 16 anni, viene risparmiato con il compito di badare per tutta la vita alle spoglie dei compagni. Egli, ormai vecchio e debole, riesce a dettare ad un giovane venditore di seta le gesta dei suoi valorosi compagni prima di spegnersi. Il racconto cardine per capire il bushido, la via del guerriero, aleggia tra le tombe degli eroi che ancora oggi si possono ammirare a Sengakuji, nei dintorni di Tokyo.



Ci tengo a metterlo in chiaro fin da subito: la leggenda dei 47 ronin è un fatto storico, non un prodotto di fantasia, narratoci però dagli occhi dei "buoni", dei vincitori. Questo ci sarà molto importante per capire e riflettere sull'opera dopo. Infatti la si può leggere in due modi diversi: contestualizzandola in relazione alla cultura Giapponese o filtrandola coi nostri canoni occidentali per capire meglio un popolo molto distante dal nostro. Ovviamente faremo entrambe le cose!

L'opera, messa per iscritto ascoltando la testimonianza di prima mano di uno dei 47 ronin, nel tempo si è diversificata in tantissimi generi: opere scritte, spettacoli teatrali, rappresentazioni grafiche e racconti popolari. Quest'enorme diffusione si spiega grazie al suo tema principale: l'estrema rappresentazione del bushido. Questo termine, per chi non lo conoscesse, significa "via del guerriero" ed è l'insieme di norme morali che regola come
comportarsi nel modo più onorevole e onesto possibile. Avete presente quelle grandi esternazioni di disciplina tipiche di alcune arti marziali? Combattere sempre con parità d'armi, adempiere ai rituali, piena fedeltà al proprio signore, non fuggire mai, praticare il seppuku, il suicidio, in caso di fallimento ecc. Eco, tutto questo è bushido. Questo comporta, com'è facile intuire, una certa rigidità di vedute e di pensiero. In occidente lo conosciamo come il codice cavalleresco Medievale e, in sostanza, è molto simile anche se, al contrario del nostro modello europeo, si applica come filosofia di vita in ogni rapporto umano. Infatti non saranno i soli ronin ad adeguarvisi ma qualunque personaggio positivo, donne e bambini. Addirittura il figlio di Kira, antitesi del bushido per eccellenza, va incontro alla morte orgoglioso di ciò che è: un nobile, fiero e coraggioso. Solo grazie alla piena dedizione a questo principio i 47 ronin riescono a rimanere uniti e a portare a termine la loro missione, nonostante per questo abbiano dovuto rinunciare alla famiglia, agli amici, e a volte anche all'onore (ovviamente solo in apparenza). Il bushido è sovrapponibile, quasi in tutto e per tutto, al termine Giappone stesso: questa la filosofia di vita sottesa ad ogni rapporto sociale e che spiega non solo la forte rigidità interna e nei confronti dello straniero, ma anche l'alto tasso di suicidi e di problemi sociali. Chi non riesce a tener testa al bushido è un emarginato sociale. Proprio come Kira.

E qui viene la lettura filtrata coi nostri canoni. La storia, come detto, è raccontata con gli occhi dei vincitori e il nemico viene tratteggiato in modo buffo e parodistico: Kira è il cattivo viscido e infame per antonomasia, il bastardo inside che non esita ad offendere il prossimo per un po' di oro. Teme la morte, si fa circondare sempre da una marea di guardie perché non sa combattere. Arriva addirittura a nascondersi in una stanza di pietra segreta insieme a due samurai della sua squadra per sfuggire al nemico mentre la sua reggia va a fuoco. E comunque, una volta catturato, non
Kira

ammetterà di essere Kira ma si fingerà un popolano qualunque. Egli è l'anti eroe per eccellenza, l'anti bushido per antonomasia. Però cerchiamo di essere realisti. Kira è una persona vera, in carne e ossa, non un personaggio di fantasia. Risulta quindi evidente come vi siano molte esagerazioni sulla sua persona ben poco realistiche e attinenti la realtà. Più probabile, infatti, che Kira non si sia mai adeguato, semplicemente, alla società Giapponese e che, in quanto individuo fuori dalla norma, sia stato espulso ed emarginato da tutti. Anche i nobili, i cui feudi confinavano col suo, infatti, agevolano in tutti i modi l'azione dei 47 che non vengono in alcun modo fermati e, anzi, aiutati. L'imperatore è proprio costretto dal suo ruolo ad imporre la sentenza nei confronti dei ribelli anche se, che Kira fosse "cattivo" era ben evidente a tutti. Da qui possiamo trarre qualche spunto molto interessante.

O ti adegui o muori, vieni escluso. Questa rigidità nella struttura sociale del Giappone è ben evidente ancora oggi e si manifesta nell'eccessiva meritocrazia del sistema scolastico, nelle pressioni che i ragazzi ricevono tutti i giorni e che sfociano in suicidi, bullismo esasperato, baby gang e il profilo drammatico degli ikkikomori a qualunque età. Infatti anche nel "mondo degli adulti" queste problematiche si ripercuotono, a volte intensificandosi: troppo lavoro, nessuna pausa, rapporti sociali appiattiti, vita sessuale solo extramatrimoniale e natalità ai minimi storici. Un rigore estremo che, per essere attenuato, richiede delle valvole di sfogo complete ed esagerate, come esagerati sono i Giapponesi: programmi comici demenziali, tutta la cultura anime e manga, pratiche sessuali particolari e bizzarre ai nostri occhi. Certo, tutta questa storia del bushido ha portato il Giappone ad essere una delle prime potenze produttrici mondiali, uno dei paesi più avanzati tecnologicamente in grado di stupirci ed ammaliarci con la sua cultura. Ma ha anche provocato il fascismo e razzismo della seconda guerra mondiale (e non solo), uno sfascio sociale e una situazione difficilmente tollerabile ai nostri occhi.

Per approfondire l'argomento vi raccomando il romanzo erotico "Tokyo Decadence" di Ryu Murakami (Mondadori), "Dopo il Banchetto" di Mishima (Feltrinelli) e "L'uccello che girava le viti del mondo" di Haruki Murakami (Mondadori). "La leggenda dei 47 ronin" la trovate, invece, edita dalla Luni editrice, punto di riferimento per molti testi dell'estremo oriente. Ovviamente ci sarebbe molto altro da dire ma l'analisi della società Giapponese non è certamente affrontabile tutta insieme in un unico articolo!

Nelle prossime due settimane non ci saranno articoli veri e propri ma articoli-post sulla pagina Facebook dove sarò sempre reperibile. Ci vediamo là oppure, dopo questa "pausa" con un nuovo articolo!

giovedì 21 luglio 2016

Gioventù Cannibale

Roma. Inizio anni '90. La vita scorre lenta, come una macchina in coda sul GRA. I turisti infestano le strette stradine che si snodano per il centro storico. Un impiegato esce sudato dalla banca, oppresso dalla calura estiva, e poco più in là un mendicante cerca inutilmente di vendere qualche braccialetto. Poi scende la sera, sfuma nella notte e la città cambia. Roma si anima per poi spegnersi lentamente. Ma non tutti vanno a dormire. I giovani sono per strada, di qualunque estrazione sociale, e consumano un'esistenza diversa, alternativa. Un'esistenza violenta.

Nella periferia di Milano, contemporaneamente, tra i tristi palazzoni grigi dell'interland, dei bambini giocano sotto il sole afoso di un pomeriggio d'agosto. Una piccola gang, come a caccia, individua un elemento debole su cui perpetrare violenze adulte nella torrida indifferenza silenziosa della periferia.

A Genova, un Natale insolitamente caldo, tra le mura di un appartamento si consuma una vendetta cotta a lungo, covata con ferma volontà. Una vendetta di cui la vittima è consapevole. La vittima sa. E forse, sotto sotto, approva i tormenti che il carnefice le infligge.



Storie nere, di sesso e violenza, in cui il sangue scorre sporco tra le righe, pagina dopo pagina. "Gioventù Cannibale" non è una semplice raccolta di racconti, è il grido di un decadentismo italiano di fine millennio che vuole farsi spazio dopo anni di conformismo. Uno strappo, una lacerazione, un movimento brusco nella letteratura che, se da un lato non rappresenta nulla di nuovo nel panorama di come funziona l'alternarsi dei movimenti culturali in Europa, dall'altro ha il pregio di tirare uno schiaffo a chi non vuole riconoscere una realtà in divenire. Dietro a questi racconti un po' noir, un po' gialli ma sicuramente rosso pomodoro si nascondono un Ellis, un Palahniuk o, andando sempre più indietro, l'arroganza baudleriana e scapigliata di giovani disillusi alcolizzati. I valori "di una volta", quelli in cui i giovani "che non credono più a niente" schifano, decadono, sono sostituiti da plastica, scritte al neon e jingle pubblicitari. Portare su carta la realtà, la quotidianità, il verismo torbido, che fa male, ma che risveglia le coscienze. I giovani cannibali si sono ribellati a un sistema che cercava di soffocare la bellezza sintetica di un'epoca in divenire.

Sono passati 20 anni (!!!) dal 1996 ma questa raccolta mi sembra validissima e attualissima per stile e temi trattati. Un immersione nel pulp, nel gore, nella violenza gratuita che forse così gratuita non è. Ho adorato le atmosfere sporche e cittadine, così quotidiane, volutamente banali. Poi certo, ogni racconto è a sé stante. Ammaniti incredibilmente audace insieme a Brancaccio in "Seratina", "Il Mondo dell'Amore" di Nove nauseabondo per l'eccesso di violenza, Luttazzi che si commenta da solo. Galiazzo decisamente apprezzabile e poi molti molti altri.


Sono 11€ di edizione Einaudi "Stile Libero" trovabile molto facilmente in qualunque libreria. Mi piacerebbe sapere se conoscete questa raccolta di racconti e cosa ne pensate. Quali storie vi hanno più affascinato? Essendo quest'anno il ventennale della raccolta avremo modo di riparlarne a breve, ve l'assicuro! Intanto vi do appuntamento al nuovo articolo e, per rimanere aggiornati, ricordatevi di venirmi a trovare in pagina!

martedì 12 luglio 2016

Vita di Marpa, il Traduttore

Tanto tempo fa (1000 d.C.), in una galassia lontana lontana (Tibet), nasceva un ragazzo di nome Marpa. Irrequieto fin da piccolo, era allontanato da tutto il villaggio a causa del suo atteggiamento rude. Per questo i parenti decisero di indirizzarlo verso gli studi, in modo che potesse concentrare la sua energia verso qualcosa di produttivo. Fu così che Marpa prese i voti e si diede alla dottrina Buddista.

Da ragazzo passò sotto diversi lama (maestri) che lo introdussero agli studi religiosi. Tra questi vi fu il saggio Drogmi che gli insegnò il sanscrito, una lingua pressoché sconosciuta, così che potesse studiare, leggere e tradurre egli stesso gli antichi sutra buddisti. Diventato poi monaco, avvolto nel suo unico abito rosso, un bastone in mano, la bisacca con le provviste sulle spalle, si diresse verso l'India, patria dei più grandi maestri religiosi dell'epoca. Durante il percorso incontrò Nyo, monaco pure lui, in viaggio verso le lussureggianti foreste indiane. Dopo qualche battuta i giovani andarono subito molto d'accordo e decisero di condividere parte del percorso. Camminarono per tanto tempo, attraverso territori sconosciuti, sopportando qualunque clima fino ad arrivare alla meta. Dopo non troppo tempo incontrarono due discepoli del leggendario Naropa, uno dei più grandi santoni del tempo. Marpa, colpito dalla loro conoscenza della dottrina e dalla loro abilità nell'esporla, decise di andare a cercare immediatamente il loro maestro per ricevere gli insegnamenti di persona. Al contrario Nyo si dimostrò molto scettico e decise di non seguire il suo compagno: come le loro strade si divisero in questo momento, allo stesso modo la religione buddista prese, ulteriormente, due strade diverse.

Fu solo dopo molti tentativi che Marpa riuscì a trovare il leggendario Naropa che subito lo accolse come un figlio sotto la sua ala. Abile nell'insegnargli il "mantra del padre", decise di indicargli un particolare maestro per apprendere quello "della madre". Il saggio Kukkuripa, esperto in quell'arte, si raccontava vivesse da solo su un isolotto circondato da un enorme lago di veleno maleodorante, attraversabile solamente a nuoto. Marpa, di indole intrepida, non si lasciò intimidire e affrontò la sfida a testa
alta, riuscendo ad arrivare a destinazione stremato, zuppo di sostanze in putrefazione ma, comunque, incrollabile. Sull'altra sponda il leggendario Kukkuripa lo stava aspettando: un corpo mostruoso ricoperto di piume e una testa da scimmia erano i bizzarri attributi di un uomo tra i più saggi, accorti e benevoli che mai misero piede sul nostro pianeta. Marpa apprese da lui numerose dottrine e, tornato da Naropa, ricevette da quest'ultimo parecchi testi. Congedatosi dal maestro e tornato in Tibet, iniziò a studiare e tradurre quelle conoscenze arcane e segrete che, in seguito, divennero la base del sapere comune: da qui il soprannome di "Marpa il Traduttore".

Diversi discepoli iniziarono a seguirlo assiduamente e, con loro, fondò anche una piccola comunità. Fu in questo periodo che Marpa ebbe modo di conoscere una donna che gli avrebbe completamente cambiato la vita: si trattava della sua prima moglie. Tuttavia non si sentiva soddisfatto della sua conoscenza e decise di tornare in India una seconda volta. Tornò a trovare il saggio Naropa, Kukkuripa e molti altri maestri tra cui la misteriosa guardiana del cimitero che lo iniziò alle prime arti misteriche. Tornato vide, piano piano, crescere la sua comunità. Tra i numerosi alunni ricevette anche il saggio Milarepa che, in seguito, sarebbe stato il continuatore della scuola Kagyu, iniziata dal santo Tilopa, discepolo del Budda, trasmessa a Naropa e da lui a Marpa.

La vita continuava pacifica nonostante i suoi continui scatti d'ira e le prove cui sottoponeva i suoi discepoli. Ebbe anche un figlio, Tarmadotte, primo discepolo della scuola, che aveva ereditato il temperamento selvaggio del padre. L'età avanzava e Marpa si faceva sempre più vecchio. Tuttavia, dopo
un sogno rivelatore avuto in contemporanea a Milarepa, decise di tornare un'ultima volta in India. Questa volta fece molta fatica a trovare il santo Naropa: sembrava sfuggirgli ogni volta da sotto il naso! Marpa, armato di una fede incrollabile, nonostante le ossa gli dolessero data la tarda età, percorse l'India in lungo e in largo fino a ricongiungersi, finalmente, con il mentore. Naropa, tuttavia, sul punto di morire, gli insegnò la grande tecnica segreta, la più importante di tutte: l'arte della trasmigrazione.

Si trattava di una tecnica misterica molto particolare e, in un certo senso, avversa al sapere ufficiale. Tramite una procedura segreta il monaco riusciva a trasmettere la sua anima in un corpo morto, controllandolo come se fosse il proprio, e lasciando indietro il vecchio involucro. Certo, si poteva aspirare alla vita eterna ma, così facendo, si sarebbe evitato il ciclo delle reincarnazioni e, di conseguenza, il raggiungimento del Nirvana. Per questo decise di passare l'insegnamento al solo Tarmadotte, figlio continuatore della scuola. Tuttavia egli, di indole turbolenta come il padre, un giorno decise di recarsi a uno spettacolo contravvendnedo a tutte le raccomandazioni della madre, rompendo il periodo di ritiro assoluto. Per via del suo comprtamento, come punizione divina, ritornando verso casa scivolò da cavallo e, imbrigliato nelle staffe, si ruppe la testa mortalmente, trascinato sul greto di un torrente. Trasportato a casa, ebbe appena la forza di operare la trasmigrazione dell'anima nel corpo di una colomba, morente tra le braccia del padre. A quel punto Marpa gli indicò dove rivolgersi e Tarmadotte, ubbidendo questa volta agli ordini, si recò in India dove animò le spoglie di un ragazzo morto da poco. Ma questa è un'altra storia ad oggi ancora sepolta sotto mucchi di papiri in un tempio di Agiaon.

Marpa si faceva sempre più vecchio e stanco e, un giorno di primavera, tirò l'ultimo respiro. Con lui scompariva una delle figure più importanti del Buddismo Tibetano e la tecnica proibita della trasmigrazione che non venne passata al saggio Milarepa. Questi, continuando la scuola del maestro, decise di raccontare la sua vita ai discepoli. Tra questi Rechung Dor'je Teg'Pa, autore di diverse biografie di santi, decise di riportare per iscritto la leggenda dei suoi due maestri. Ma di Milarepa, del suo periodo oscuro passato a studiare la magia nera, del distacco verso la dottrina e della vita di stenti, abbiamo già parlato in un altro spazio, in un altro tempo...




Il racconto è tratto dalla biografia di Marpa studiata e risistemata da Bacott e edita in Italia in un libricino molto carino e facilmente reperibile della Adelphi. Una storia semplice ma affascinante, arrivata in maniera concisa ma sufficiente a delineare le vicende di uno degli iniziatori del buddismo tibetano! Ho voluto cercare di raccontare, come se fosse un racconto, le vicende principali di questa figura così affascinante ma, ovviamente, ho dovuto omettere numerosi dettagli, per cui se siete interessati vi consiglio sempre di leggervi il libro. 

La prossima volta cambieremo completamente periodo e luogo: torneremo in Italia e preparatevi perché scorrerà molto molto sangue... 

domenica 26 giugno 2016

Capire Aristofane: una breve guida

Aprire un blog è come iniziare a scrivere, ma più in grande. L'ansia da foglio bianco è ingigantita: un'enorme pagina vuota da riempire di altre pagine ancora più vuote. Quando aprii questo spazio avevo diversi argomenti da cui iniziare e, aiutato da un'amica, alla fine scelsi come punto di partenza le fiabe dei fratelli Grimm. Dopo tanti autori, temi e opere si sono accumulati. Tanti, tranne uno cui tengo particolarmente: Aristofane. Inquadrare e giustificare la commedia in Grecia e il suo più grande esponente è forse una delle cose più ostiche che abbia mai affrontato! Però tranquilli: ci ho messo solo 30 mesi a decidermi di provarci ma, alla fine, ce l'ho fatta!

Aristofane (450 a.C.-380 a.C.) è un cittadino ateniese come tutti, pienamente catapultato nel clima politico della città. Democrazia significa partecipazione del popolo alla cosa pubblica e mai, come ai tempi dei Greci, si è vista una partecipazione così sentita. Il clima di forte nazionalismo che pervadeva le varie cittadine (polis), le tensioni costanti coi vicini (Sparta e i Persiani) e la poca popolazione crearono un clima di informazione costante e partecipata e una comunità in cui tutti, bene o male, conoscevano tutti. I politici erano noti dalla gente per i loro pregi ma, soprattutto, per i difetti. E questo è un punto fondamentale.

Prendete le caricature di personaggi come Renzi, Berlusconi, Salvini, Andreotti & co: ci basta un minimo carattere distintivo in una vignetta per capire di chi si sta parlando. La stessa cosa vale, che ci crediate o meno, anche per l'Atene di quel periodo! Aristofane sfrutta ogni personaggio delle sue commedie per farne una macchietta per i personaggi politici rappresentati nel modo più spietato possibile.

Ora immaginatevi il clima in cui venivano rappresentate le commedie: giorno, un grosso anfiteatro all'aperto, lunghe panche di legno stracolme di cittadini di ogni estrazione sociale, dal contadino al sacerdote, qualche attore sul palco, un coro di ballerini presente in scena e il chiasso della festa sacra ancora in corso poco più in là. La platea, decisamente poco educata, nel mezzo delle rappresentazioni rischiava di distrarsi e urlare, chiacchierare e ridere per i fatti loro. Come catturare l'attenzione della gente? Facendola ridere, non trattandosi di una tragedia. E come fare? Puntando su argomenti bassi, battute facilmente comprensibili e che facessero leva su problemi quotidiani: così sesso e politica divennero i due pilastri portanti della commedia! Per fare un paragone moderno immaginatevi lo spettacolo apocalittico di un "Natale ad Atene" con Boldi nei panni di Temistocle, de Sica come Agesilao, Enzo Salvi un vivace Epaminonda, l'intramontabile Pieraccioni come Pericle con Ceccherini Socrate e, dulcis in fundo, Aida Yespica nel ruolo dell'esuberante Aspasia!

Per questo motivo noi occidentali del 2016 non riusciamo a essere coinvolti da quest'umorismo e, leggendo il testo, ci sembra tutto più squallido che divertente. Manca, infatti, un elemento fondamentale: gli abiti di scena! Gli attori, rigorosamente tutti maschi, anche quando interpretavano ruoli femminili, erano addobbati con peni finti di cuoio, enormi sederi posticci sotto la tunica e maschere buffe. L'effetto comico era potenziato quando, appunto, venivano aumentati tratti caratteristici del politico o del dio (sì, nemmeno la religione era esclusa): Dioniso vestito da donna, i vecchi giudici delle vespe armati di "pungiglione" per colpire e Socrate brutto, pulcioso e sporco.


La forza della commedia è anche quella di poter rappresentare le scene più assurde: un dio alla ricerca di due autori all'Inferno ("Le Rane"), una città popolata da volatili ("Gli Uccelli"), una trattativa di pace alcolica ("Acarnesi") o uno sciopero del sesso per la pace ("Lisistrata"). Tutte metafore per svegliare la gente, renderla più istruita con il più potente mezzo a disposizione dell'uomo: la risata!

Creare un articolo completo su Aristofane e il contesto della commedia arcaica in poco spazio è letteralmente impossibile. Tuttavia con queste piccole chiavi di lettura potete avvicinarvi alle opere di uno dei più geniali autori classici senza sentirvi in profondo disagio! Settimana prossima si tornerà a parlare, invece, di santi tibetani e dei loro viaggi avventurosi alla ricerca di pergamene dimenticate e una tecnica misteriosa...



sabato 18 giugno 2016

Recensioni lampo (10): "La collina dei conigli"

I libri, come tutte le cose, vanno giudicati secondo criteri diversi ma che convivono contemporaneamente: un romanzo può essere sì scritto bene ma avere, allo stesso tempo, una trama banale e raffazzonata. Per questo recensire e parlare di un'opera non è semplice perché bisogna fare un bilanciamento tra tantissimi fattori diversi e, a volte, in forte contrasto. E questo è il caso anche de "La collina dei conigli" di Richard Adams (1972). Ed è anche il motivo per cui questa recensione è particolarmente "fredda" e poco sentita: non mi sento di promuovere l'opera in toto ma nemmeno di affondarla, quindi immagino che l'ultima parola spetti a voi!



Premesso che per motivi personali ho impiegato un mesetto a leggermi tutto il romanzo (comunque di quasi 500 pagine), provo sensazioni contrastanti nel parlarne. Profondamente noioso a tratti, è riuscito, nell'ultimo capitolo, a farmi sinceramente emozionare. Lo stile, mi infastidisce ammetterlo, è fin troppo spesso semplice e banale ai limiti della noia. Si può adattare molto bene a una fiaba quale questa non è: non tanto per la trama, semplice e banalotta, quanto per ambientazione e coerenza che hanno dello straordinario!

"La collina dei conigli" parla delle peripezie di un gruppo, appunto, di conigli nella campagna Inglese in fuga dalla loro conigliera verso un luogo migliore, desiderosi di fondare una nuova colonia. Si tratta di animali che vivono in un mondo animale perfettamente coerente e ben strutturato, per nulla umanizzato. Nomi, modo di esprimersi e, perfino, la mitologia (!!!)
senza contare etimologia delle parole, religione e costumi sono perfettamente coerenti e pertinenti per un mondo di conigli e non di conigli-uomo. La cosa che, anzi, mi ha più sorpreso è stata la ripresa di caratteri antropologici nella narrazione dei miti che vengono narrati tra le pagine del romanzo. Simboli, forme e nomi creano un vero universo conigliesco che respira di vita propria.

La profondità della narrazione e dei messaggi è molto poca, soprattutto se prendete come modello di riferimento "La fattoria degli animali" di Orwell, un libro solo apparentemente simile. In entrambe le opere vi sono animali parlanti, è vero, ma che differenza tra una metafora politica sulla Russia rivoluzionaria e una storiella come tante altre! Vi consiglio "La collina dei conigli" solo se ancora non avete letto il capolavoro di Orwell: solo così riuscirete ad apprezzarla pienamente! Molto godibile anche la rappresentazione di una campagna inglese verde, lussureggiante e viva nella sua quotidianità. Una natura abitata dall'uomo che passa come figura non solo esclusivamente negativa. Vero, sopratutto all'inizio non ci fa una gran bella figura ma sul finale le cose cambiano (vi è anche un cameo dell'autore stesso!).

Un libro un po' "meh", sicuramente curioso ma non così tanto da dover essere letto a tutti i costi. Va bene per ragazzi dalle medie fino ai primi anni di liceo o per qualche lettura estiva molto poco impegnata sotto l'ombrellone. Se l'avete letto mi piacerebbe, ovviamente sapere la vostra opinione qui nei commenti o su Facebook. Altrimenti l'appuntamento è, ora più che mai, per settimana prossima!



mercoledì 25 maggio 2016

Elogio dei Falsi


Due paroline veloci veloci per dirvi che, sul mio portale Medium, ho pubblicato un nuovo articolo! "Elogio dei Falsi" ero molto indeciso se metterlo di qui o d là e quindi vi rinvio all'altro portale, basta che clicchiate QUA! Buona lettura e... fatemi sapere!

domenica 22 maggio 2016

Piccolo Viaggio nella Storia della Letteratura (5): il 1600

Andando avanti in questa nostra sommaria storia della letteratura (qua trovate l'ultima puntata) è giunto il momento di lasciarci alle spalle lo splendore del rinascimento italiano del 1500 e di approdare al 1600. Di tutti i secoli questo è, secondo il mio gusto, uno dei meno affascinanti: la controriforma cattolica (1563), risposta al protestantesimo nato con Lutero (1483-1546), annulla diverse forme di licenza artistica e il gusto si adatta, sempre più, a quello esclusivo dei potenti. Questa classe sociale, oramai
abituata ai fasti del secolo precedente, diventa così tanto forte ed estranea al vivere comune, come una fortezza in mezzo all'oceano, che inizia letteralmente ad annoiarsi e, Dio mi sia testimone, non vi è nulla di così terribile come la noia. Per questo motivo si cercava sempre il "diverso", il "particolare", il "nuovo" cercando di stravolgere i canoni e i gusti precedenti. Ed è da questi antecedenti che attecchisce e cresce il manierismo barocco.

"Manieriso" è, appunto, tutto ciò che non è canonico: inizialmente si trattava di piccoli aggiustamenti, dettagli quasi, ma piano piano si arrivò a una vera rivoluzione nel gusto. Gli esiti più felici si ebbero nell'ambito delle arti figurative: architettura, pittura e scultura ricevettero una spinta enorme. Si può decisamente pensare a questo secolo come diviso inesorabilmente tra lo spirituale della controriforma e il plastico, il corporeo, delle passioni e della moda. Questo è visibile da una parte con la "Gerusalemme Liberata" dell'irreprensibile Torquato Tasso (1544-1595), ossessionato dall'ombra del cattolicesimo inquisitorio, e dall'altro con le opere dello spensierato Giambattista Marino (1569-1625), autore protagonista del secolo.
Avventuriero, poeta di corte e abile politicante, Giambattista Marino visse in modo roccambolesco attraversando diverse corti in Europa. Egli incarna appieno il gusto e la genialità dell'epoca. A proposito dell'amore per le arti figurative va ricordata la sua "Galleria" (1620) dove, come se ci si trovasse al museo, racconta e descrive diverse opere d'arte celebri alla sua epoca e che ebbe modo di osservare presso i vari ambienti nobiliari che frequentò. Tuttavia viene ricordato principalmente per la straordinaria poesia
cortigiana in grado di parlare dei temi più oziosi in modo aulico e provocatorio allo stesso tempo, da vero manierista: celebre, in tal senso, il componimento sui pidocchi ("Onde Dorate")! Il suo capolavoro, vero fulcro del genio Marinesco, fu "l'Adone" (1623), forse il poema più lungo della storia della letteratura italiana (sì, più della Commedia Dantesca comprensiva dei 100 canti!), in cui si narrano le vicende d'amore tra, appunto, Adone e la dea Afrodite. Se avete studiato quest'autore a scuola è quantomeno possibile che avrete letto il momento della morte dell'eroe, trafitto dalle zanne di un cinghiale che, innamorato di lui, se lo voleva far suo (non sto scherzando). Tuttavia celebre è anche il passo in cui vengono descritti i vari giardini in cui si ritrovano i due amanti tra cui quello del tatto in cui, ovviamente, accadono cose. Questo per evidenziarvi le contraddizioni, sostanzialmente volute, tra il contenuto di certe opere e il comportamento della classe nobiliare e, di rimando, la chiusura del cattolicesimo imperante.

Il mondo del pensiero europeo si tinge, in quegli anni, del nero del pensiero ispirato dalla fede: Campanella, Bruno, Pascal, Spinoza e Cartesio sono i filosofi più importanti di quegli anni, tutti concentrati sul capire quale fosse la natura delle cose e di Dio. L'unico che cercò, almeno in Italia, di mantenere uno sguardo più scientifico sul mondo fu Galileo Galilei (1564-1642) che, istituzionalizzando il così detto "metodo scientifico", formalizzò e consolidò un procedimento già insito nella natura dell'uomo (quello della prova e dell'errore per raggiungere una forma più completa di realizzazione). Sfortunatamente non amo affatto la sua prosa, in un italiano complesso e poco fluido: per comprendere a pieno la figura del geniale scienziato consiglio sempre, invece, "Vita di Galileo" di Bertold Brecht, celebre drammaturgo tedesco del 1900.



Tuttavia la storia, come già ho avuto modo di dirvi, è composta di spinte e controspinte. Quindi, come potrete facilmente intuire, a un periodo così suntuoso e pesante se ne contrappose presto uno più leggero, definito e netto. Parlo della scuola dell' "Arcadia", un'accademia romana in cui la creme de la creme romana si ritrovava per comporre semplici poesiole a carattere pastorale e bucolico (che avessero come tema portante la vita di campagna). Una poesia completamente disimpegnata, volutamente lontana dalla complessità della vita di corte, eppure, nonostante ciò, molto attenta alla buona etichetta e alla formalità. A capo di questo movimento vi fu un giovane prodigio, lo scrittore di melodrammi Pietro Trapassi (1698-1782), in arte Metastasio. Abituato a essere trattato come il classico bambino prodigio "nato imparato", in grado di rallegrare i salotti della meglio nobiltà, divenne molto presto una celebrità di fama europea, invitato alle migliori corti in circolazione.

Questo movimento, apparentemente tanto inutile e di secondo piano, con la sua semplificazione dello stile e dei temi spalancò le porte al periodo che vedremo assieme la prossima volta: l'illuminismo del 1700!

Dopo aver brutalmente saltato il rapporto col popolo arabo (Battaglia di Lepanto 1571) e con le Americhe, il romanzo picaresco spagnolo culminato col "Quishotte" (1605) di Cervantes (15347-1616) e il movimento libertino di Montaigne, spero che abbiate trovato anche solo minimamente curiosa e interessante questa guida, volta a rinfrescare la memoria di chi certi periodi già li conosce o incuriosire chi non ne sapeva nulla! Per qualunque approfondimento sono sempre disponibile qui sotto e in pagina o, altrimenti, ci si vede al prossimo articolo!



venerdì 13 maggio 2016

L'Uomo e la Violenza: storia di un amore agitato

Ci sono alcuni aspetti dell'uomo che, per quanto ci si sforzi, non saranno mai estirpabili fin dalla nascita: fanno parte di noi, sono insiti nel nostro animo, nella specie umana, inalienabili al livello biologico. Sono elementi che ci rendono non solo uomini ma anche creature viventi: impulsi, istinti, reazioni che hanno fatto sì che la specie si potesse preservare. Siamo uomini e, in quanto tali, se siamo arrivati fin qua è grazie anche a determinati meccanismi che oggi, senza analizzarli, possono sembrarci scomodi. Tra questi vi è, senza dubbio, la violenza, assimilabile a una più generica pulsione antagonista volta alla sopravvivenza nel senso più grezzo del termine.



Nel corso dei secoli si è concretizzata nei modi più vari e disparati: guerre, esecuzioni pubbliche, combattimenti più o meno legali, dagli scontri nei colossei alle lotte clandestine tra animali, fino ad approdare a forme agonistiche meno "dirette" come ad esempio il calcio che, però, rivelano sempre una controparte violenta. E non mi riferisco solo agli "innocui" scontri tra ultrà ma a casi come quello del celebre Serbia-Albania del 2014 in cui, per motivi ideologici, gli schieramenti di due nazioni diverse hanno dato luogo a una gigantesca rissa: uno sport diventa il riflesso di uno scontro internazionale tra due stati-etnie. L'uomo ha bisogno di sangue, scontri e rivalità e l'ha dimostrato anche in tempi di relativa pace in cui non c'era necessariamente bisogno di antagonismo. Un esempio tra tutti gli scontri carnevaleschi dell' Italia dei comuni con le terribili "battagliole" (combattimenti a suon di legnate e sassate tra due fazioni in pace al fine di ricostruire un campo di battaglia umile e popolare, i cui echi sono riscontrabili nel carnevale delle arance di Ivrea, ad esempio). I casi non si contano e si dislocano nel tempo e nello spazio con caratteristiche sempre uguali.

Il senso di fascino e di disgusto, mischiati nella stessa immagine, vengono parzialmente superati con l'eccitazione per il sangue e la sottomissione, caratteristiche fondamentali del fenomeno violenza che prevede, in ogni sua forma, il perdurare di questi caratteri anche in maniera metaforica. Il calcio, già citato, ha la parte di sottomissione, ravvisabile nel gesto del gol, della supremazia numerica, e una parte più violenta che si riversa sulle tribune.
Ma non solo. Anche un banale show televisivo o quiz fa in modo che si possa propendere per una fazione o l'altra. L'uomo ha bisogno di antagonismo, di non perdere questo suo istinto che lo condurrebbe alla rovina. Posto, dunque, che un carattere antropologico come quello della violenza-sopravvivenza non si può eludere, resta il fatto che si possa incanalare in esternazioni pacifiche come quelle sportivo agonistiche. Il fair play, modernizzazione dello spirito cavalleresco Occidentale e dell'onore del guerriero Giapponese, è un ottimo esempio di come si vogliano regolarizzare e ordinare certe pulsioni dotandole dello strumento più efficace dato all'uomo per cooperare: un sistema legislativo.

Imposto dall'alto, instauratosi in seguito ad antichissime consuetudini o autoprodotto nell'estremo stato di necessità, un sistema normativo, dotato necessariamente di una sua formalità (o ritualità, chiamatela come preferite) è di vitale importanza. Nato per regolare tensioni e situazioni poco piacevoli, viene, in realtà, utilizzato per sistematizzare meccanismi pacifici che, però, a loro volta, possono nascondere una rivalità intrinseca. Avete presente quando andate a casa di un amico per cena e portate un dolce? Ecco, egli di sicuro, la volta dopo, quando verrà da voi, porterà qualcosa di valore leggermente superiore. Quel dono, investito di un valore ben determinato e carico di messaggi (pensate, a proposito, alla differenza tra un alcolico e un ingrediente particolare), creerà una "sfida all'ultima cortesia" secondo un intricato sistema di regole che vivono tra il detto e il non detto. Non posso dilungarmi troppo oltre su questo bellissimo argomento che mi interessa incredibilmente ma, per chi fosse interessato, si senta libero di cercare cosa sia il "Pothlac".



La violenza, carattere indispensabile, può essere meglio mediata dall'uomo attraverso sistemi che blocchino un eccessivo spreco di risorse, pur rimanendo un carattere ineliminabile se non in tempi a dir poco biblici (o meglio evoluzionistici). Per oggi l'articolo giunge, quindi al termine!


Domani, sabato 14 maggio, sarò presente al salone internazionale del libro di Torino: qualora aveste piacere a far due chiacchiere col sottoscritto, sappiate che mi troverete alle ore 14 di fronte allo stand della Feltrinelli! Se non ci sarete controllate la pagina Facebook per futuri annunci perché stanno per arrivare le cose belle, davvero! 

lunedì 25 aprile 2016

Capire De Sade: una breve guida

Pornografo o filosofo? Genio o folle? Sadico o incompreso? Quel che è certo è che il marchese De Sade (1740-1814) è una delle figure più discusse
e celebri della storia del pensiero europeo. Manco a dirlo, viene spesso frainteso e, per questo, vi ho dedicato diversi articoli (questo il più recente). Figura molto carismatica, fece una vita sì avventurosa ma non come ce la si aspetterebbe, inseguito dal fantasma delle sue opere e dalla cattiva fama che ne seguiva. Al divin marchese dobbiamo il termine "sadismo" dalle mille sfaccettature, pratiche e morali. Oggi non voglio spezzare ulteriori lance in suo favore, non più di quanto abbia fatto in precedenza. Mio intento, invece, spiegarvi in breve il clima culturale che l'ha portato a comporre quel che compose.

Libertino. Un termine che nasce nel 1600, quasi a cavallo col secolo precedente, e che, nella sua sfumatura originaria, non voleva coprire per forza la sfera della sessualità. Con il termine si identificava, molto più semplicemente, chi aveva una visione, un punto di vista, differente rispetto a quello ufficiale cattolico. Una libertà di pensiero che, concretamente, si affacciava sull'uomo dopo un millennio di accettazione dogmatica dei canoni imposti dall'alto. Ovviamente chi stava dall'altra parte, chi teneva le redini del gioco, non era molto contento della cosa e iniziò, poco alla volta, una vera campagna di demonizzazione del libertino a più livelli tra cui, appunto, quello sessuale. Visti come demoni lussuriosi, quasi per osmosi di pensiero, alcuni di loro iniziarono a sperimentare una relativa libertà di espressione in ambito erotico che riversarono contro re e chierici sotto
forma di brevi scritti satirici (tanto tempo fa vi parlai di questo). Il filone della letteratura antimonarchica, Maria Antonietta meretrice di corte sopra tutte, divenne molto florido. Quindi, ricapitolando: i libertini sviluppano autonomia di pensiero, i nemici li accusano di eccessi sessuali e perversioni immonde, loro prendono la palla al balzo e scrivono di certi temi contro chi voleva screditarli in tal senso. Ciò, beninteso, non vuol dire che, allora, il libertino fosse un santo sempre e comunque! Diciamo che l'attendibilità storica, sia da una parte sia dall'altra, è quasi nulla ed è quindi futile parlarne sperando di arrivare a conclusioni, almeno in questa sede, troppo approfondite. Fatto sta che questi autori vanno a rivendicare una sessualità comune, popolare, che la monarchia aveva tenuto per sé stessa molto a lungo. Parlano di pratiche molto estreme, coronate da un linguaggio tecnico che raramente prima era riuscito a emergere: era la liberazione del vocabolario, la liberazione dei corpi.

"Ma Constitution"


In questo clima di scontri sessuali, se così si può dire, va poco alla volta innestandosi quel clima rivoluzionario che, da lì a poco, avrebbe sconvolto la Francia e, con lei, l'Europa intera. Ed è qui che si colloca il barone De Sade, nobile in una situazione economica non esattamente floridissima e che compone scritti filosofici in cui inneggia a una morale non classica. Giustifica quelle che, agli occhi dei più, possono sembrare delle barbarie con uno stile ora pesante ora tagliente. Una cosa appare fin da subito chiara: esalta, fino al parossismo, tutti quegli stereotipi che la monarchia attribuiva ai libertini fino agli estremi più terribili. De Sade adora gli eccessi, si eccita all'idea, dal gusto squisitamente antropologico, di varcare ogni confine della decenza, infrangendo al suolò i più rigidi tabù. Egli vive in un clima di caos e confusione, in cui gli amici di oggi sono i nemici di domani e gli alleati di dopodomani, in un'atmosfera elettrica e datura di terrore e incertezza. Adora essere villipeso dai suoi contemporanei, considerato come un demone, e più viene nutrito di sterco infamante più cresce nella sua stessa lussuria, reale, immaginifica o leggendaria che fosse.

Ed ecco come De Sade ci appare, tutt'un tratto, assolutamente contestualizzato e a suo agio in un mondo che, oggi, facciamo fatica a guardare con gli occhi di chi, a quel tempo, ci visse. Ora esaltato come un genio, ora bistrattato, dopo anni che leggo le sue opere e cerco di approfondirlo nei limiti del possibile, posso dire che sta a metà. Uno scrittore certamente mediocre, che riesce a rendere noioso il sesso (e ragazzi, ce ne vuole!) e che espone le sue teorie in modo confuso, spesso ridondante e contraddittorio. Tuttavia innegabile il suo fascino dell'eccesso, incredibilmente pungenti le osservazioni sulla società e la filosofia di fondo.


Che forse, se le cose vanno male, forse un po' colpa dell'uomo è!


domenica 17 aprile 2016

Milarepa: vita di un Santo

In ogni cultura sono presenti figure di santi e eremiti capaci di ogni tipo di miracoli. L'ascetismo, l'unione con la Natura e l'estraniazione dalla civiltà sono segni distintivi di una schiera di personaggi semidivini che popola la fantasia della gente, eremiti anacoreti, santoni indiani o saggi orientali che siano. E questo è il caso del Tibetano Milarepa (1051-1135), asceta Buddhista di cui l'allievo Rechung-Dorje-Tagpa ha redatto una consigliatissima biografia che, in Italia, è edita dalla Luni.

Milarepa (notate il colore verde)
L'intera narrazione è rinchiusa in una cornice più ampia: l'anziano Milarepa, vecchio santo molto famoso, è circondato dai suoi discepoli che gli chiedono di raccontargli la sua vita e di come sia diventato così saggio. Dopo essersi lasciato un pochino desiderare, il Guru, nel narrare le sue vicende, le divide in due parti: la prima, quella della magia nera e del peccato, più modesta, e l'altra più sviluppata di quando, grazie alla magia bianca e alle pratiche ascetiche, ha percorso la via della rettitudine. Una volta arrivato a raccontare i fatti di poco antecedenti al presente, si aprirà un ultimo capitolo riguardo la morte e gli eventi miracolosi che ne susseguirono.

Prima di vedere un pochino più da vicino le vicende che caratterizzarono la sua vita è il caso di immedesimarsi con l'epoca e il territorio. La zona geografica, che ingloba Tibet e Nepal, aveva ai tempi un grado di strutture sociali e avanzamento tecnologico non dissimile dal nostro Medioevo Europeo. Si tratta di zone, come potete ben immaginare, sperdute tra i monti e con ampie valli in cui si trovano piantagioni intensive di cereali tra cui l'orzo, dal quale è ricavato pure il "Chang", una bevanda alcolica assimilabile alla nostra birra. La gente sopravviveva grazie a questi raccolti che proteggeva grazie a dei monaci, esperti in magia bianca, che tenevano lontane le tempeste di grandine inviate, spesso, da stregoni seguaci della magia nera assoldati da qualche nemico o vicino invidioso. E Milarepa nasce, appunto, in una famiglia di ricchi possidenti terrieri. Sfortunatamente finiscono, in seguito alla morte del capo famiglia, in rovina e oppressi dagli
Marpa "il Traduttore"
zii. Il giovane Milarepa, letteralmente "Colui che si ascolta con delizia", sfrutterà gli ultimi risparmi della madre per percorrere la strada della magia nera e distruggere i possedimenti dei parenti malvagi. Tuttavia, dopo essere riuscito nel suo intento, si pente e, per apprendere la via della magia bianca, diventa, dopo aver superato numerose difficili prove, allievo del leggendario Marpa, "il Traduttore". Da questi viene convinto a vivere nell'ascetismo più totale, rinunciando a qualunque lusso o eccesso seppur minimo. Finisce, così, per perdere completamente gli abiti, smunto e denutrito simile a uno scheletro, e con la carnagione di color... verdognolo per via delle numerose zuppe di ortiche che si era preparato per sopportare la fame. La vita, sempre incentrata su morigeratezza, bontà e comprensione, continua nell'estrema indigenza fino al sopraggiungere della morte.

Siddharta nel periodo della rinuncia totale
È sempre bene precisare che sia Marpa sia Milarepa sono storicamente attestai e hanno dato via a scuole di pensiero molto importanti per il Buddhismo Tibetano. Il primo, in particolare, deve il suo epiteto di "Traduttore" alla sua opera di recupero in India e traduzione di antiche scritture sacre, poi entrate a far parte del canone Buddhista. Si tratta, comunque, di una biografia ovviamente idealizzata sia dell'uno sia dell'altro ma, non per questo, meno importante. Anzi, è proprio questo lo scopo del testo: non raccontare una vita ma fornire un modello, un codice di disciplina, diverso e alternativo rispetto alla classica vita di Siddharta. Il Buddha Storico, così viene chiamato, ha infatti sì conosciuto un periodo di totale rinuncia ai beni materiali evolvendo, tuttavia, da questa concezione così rigida e approdando a una via di mezzo tra rinuncia e opulenza. Altro elemento di rilievo all'interno degli esempi di condotta sono le disumane prove cui viene sottoposto Milarepa per diventare discepolo di Marpa e che servono a purificarlo dal peccato commesso seguendo la via della magia nera.

Vorrei aprire, qui, una piccola riflessione legata a quale insegnamento possiamo trarre nel 2016 dalla vita di un asceta Tibetano vissuto mille anni fa. Consideratela il cuore dell'articolo ma, allo stesso tempo, non connessa con l'opera in sé: non è obbligatorio leggerla se siete venuti qua solo per il libro che, per stile narrativo e traduzione, mi sento di consigliarvi parecchio.

Viviamo in un'epoca in cui, spendendo relativamente poco, abbiamo accesso a ogni sorta di eccesso: cibo, alcolici, sesso, gioco d'azzardo, vestiti, droghe, chincaglierie ecc. Tutto può essere accumulato e ammassato fino al limite in un batter d'occhio. E qua sta sia la gioia sia la croce della società moderna. Avere tutto subito e in gran quantità e con ampia possibilità di scelta è una conquista che non dobbiamo dimenticare quanto sia importante, fondamentale e preziosa. Tuttavia perderci nel baratro della tentazione continua e sfrenata è un attimo. E qua interviene l'insegnamento di Milarepa, a mio parere: astrazione, almeno ogni tanto, dai beni terreni per ritrovare sé stessi, saper dir di no in un'epoca fatta di sì e saperci assentare dalla modernità che pare aver sempre bisogno di noi. Certo, non si parla di completa rinuncia ma, quantomeno, parziale: a mio parere, l'estremo non è apprezzabile e decisamente dannoso.

Saper vivere la propria vita nel giusto
Milarepa da una parte
la quotidianità dall'altra