giovedì 31 dicembre 2015

Speciale racconto due anni del blog: "Tea Party"

Faceva un freddo cane quel 5 dicembre, alle 6 della mattina, all'aeroporto di Malpensa. Vestito di soli pantaloni leggeri lunghi, felpa e maglietta (oltre la biancheria intima e le scarpe, si intende), stavo io, scaricato davanti alla porta 4 del primo terminal, solo e tremante come una foglia, in una mano il trolley, nell'altra il passaporto e un solido zaino blu sbiadito di tessuto sulle spalle, pieno zeppo di libri e vestiti. Il Myanmar, un tempo Birmania, mi stava aspettando o, meglio, io non vedevo l'ora che l'aereo mi portasse il più lontano possibile dalla mia città. Le pareti umide, l'aria malsana e gli sguardi della gente di provincia si erano rivelati un cocktail micidiale per il mio umore nell'ultimo periodo e avevo un disperato bisogno di staccare dalla realtà. Per questo avevo scelto, di tutti i posti, uno dei più caldi e lontani dall'occidente del mondo. Inoltre il regime militare dell'odierno Myanmar aveva aperto le porte al turismo da pochi anni e bisognava approfittarsene prima che piccole realtà autentiche si trasformassero in autentiche, nuove, caotiche Bangkok. Era la prima volta che mi recavo in un paese problematico come quello e non sapevo, sinceramente, cosa aspettarmi. Ovviamente qualunque mia costruzione mentale sarebbe stata, da lì a poco, spazzata via come un castello di carte fragilmente assemblato da un gruppo di vecchi ubriachi in uno sporco bar di Phoenix.

Diverse ore di aereo, scalo ad Abu Dhabi, diverse ore d'aereo, arrivo a Bangkok. Una città caotica per chi non è mai stato nei suk di Damasco, piena di palazzoni di cemento che sovrastano una folla di gente che, per strada, ingurgita noodles in brodo circondata da una fitta nube di smog. Gigantografie del re campeggiano ad ogni angolo della città, in mezzo ai vialoni, sulle facciate degli uffici governativi: un vomitevole miscuglio di Mussolini, regina Elisabetta II e il Grande Fratello con due fette di totalitarismo e una spruzzata di pessimo gusto sopra. Fortunatamente rimango solo due giorni in quella città così soffocante e opprimente per poi dirigermi, finalmente, alla volta di Yangon, l'ex capitale della ex Birmania, ora sostituita da Naipidaw, la città fantasma, fatta costruire in fretta e furia dal regime per trasferirsi in questa sorta di isola elitaria.

L'aereo non ci mette che un'oretta scarsa, tempo di arrivare in centro, lasciare giù il bagaglio, e sono subito fuori, sotto il caldo cocente, tra lo smog cittadino e il caos dei cantieri pieni di operai che tirano su alte palazzine. L'atmosfera è molto diversa, la povertà e percepibile immediatamente, quasi palpabile, ma una povertà felice, spensierata, di gente ignara di cosa vi sia dall'altra parte del mondo. Lente processioni di giovani monaci, testa rasata, sandali ai piedi e tunica rossa, raccolgono il riso nelle ciotole per l'elemosina che tengono a tracolla mentre si rinfrescano con grossi ventagli di velluto amaranto. Yangon ha qualche bel tempio da offrire, in particolare la Shwedagon Paya, uno stupa dorato gigantesco che si impone sul panorama cittadino con le sue proporzioni mastodontiche. Moderatamente soddisfatto dalla giornata, me ne stavo tornando in hotel tutto tranquillo, la sera, quando, improvvisamente, la mia tranquilla vacanza prese una piega inaspettata.

Ad aspettarmi davanti all'hotel c'era un macchinone enorme, tutto nero, coi vetri oscurati. Leggermente intimidito, facendo finta di nulla, passai oltre ma non feci in tempo a metter piede nella hall dell'albergo che si aprì la portiera e ne uscì un birmano basso e grassoccio, difficile dire l'età. Anche se il buio regnava, unico padrone, sulle strade di Yangon, indossava dei grandi occhiali da sole neri, in tinta con la macchina. Mi guardò con attenzione ed emise dei suoi simili a un "A yiu miste Giadina?". Sul subito non capii, la pronuncia era decisamente pessima e ero molto provato dalla giornata. "A yiu miste Giadina?" tuonò, decisamente più seccato di prima. Con un piccolo sforzo capii che ce l'aveva con me e, sudando freddo, gli risposi "Yes, it's me". Apparentemente soddisfatto, le labbra serrate in un sorriso professionale, aprì la portiera accanto all'autista e, con un secco ma deciso movimento della testa, mi invitò a mettermi seduto. La mamma mi ha sempre detto di non accettare caramelle dagli sconosciuti, ma non aveva mai accennato a fondine che spuntano in modo tattico dalle giacche. Sudando freddo copiosamente, trattenendomi dall'urlare come un dannato, mi sedetti rigidamente sul sedile, lo sguardo fisso davanti a me, tutti i 752 muscoli contratti, lo stomaco attorcigliato, tutto annullato. Egli si sedette accanto a me e, sfoderando un sorrisone a 48 denti rossi annullati dal betel, mi porse la mano dicendo "Nay Min Ko". Rimasi paralizzato qualche istante, poi accennando un pallido sorriso decisamente poco convincente ricambiai il gesto senza aprir bocca. Il viaggio fu breve ma sembrava durare secoli. Percorremmo silenziosamente gli affollati vialoni di Yangon verso nord, in direzione della Shwedagon, per poi svoltare in un viottolo fiancheggiato da ambasciate e ville lussuose. Ovviamente non dicevo nulla, ci mancherebbe altro, ma dentro di me mi era ben chiaro che qualcuno mi cercava, qualcuno non di poco conto. Ma chi? Chi poteva desiderare la mia presenza in Myanmar, a Yangon, l'8 di dicembre? Finalmente spuntammo su uno stradone deserto dove ci fermammo ai lati, aspettando che un grigio cancello, fiocamente illuminato da due lampioncini, si aprisse dall'altra parte. Non riuscii a scorgere nulla, nel mentre l'auto prudentemente entrava dentro, ma con la coda dell'occhio intravidi una bandiera rossa. La macchina fece qualche metro e si fermò in un ampio piazzale dove un maggiordomo, elegantemente vestito con una livrea di gusto occidentale, simile a un marinaretto, mi aprì la portiera. Disorientato uscii ed egli, con un sorrisone a 59 denti, mi disse, in un inglese a dir poco impeccabile "The Lady is waiting for you. Would you please follow me inside, sir?" e mi condusse attraverso un giardino curatissimo, camminando su un sentierino di ciottoli illuminato dalla fioca luce dei lanternini, fino a una bella casa occidentale a due piani. Salii i due gradini che portavano alla veranda quando la porta si aprì e mi venne incontro San Suu Kyii.

Se qualcuno mi chiedesse ora perché non sono cascato a terra svenuto, sinceramente non saprei rispondergli. La situazione era così irreale da superare qualunque barriera logica e razionale. Ricordo chiaramente di come mi chiese, sempre in inglese (da qui in poi traduco tutto in italiano per comodità) come fosse andato il viaggio e se volevo una tazza di tè. Invece qualunque traccia di una mia risposta è annullata dalla mia mente, terrorizzata e annichilita dall'improvvisa apparizione. I ricordi si fanno più vividi da quando mi sono seduto su una bianca poltrona di pelle nell'accogliente salotto che si affacciava sul lago Inya. Quella sera parlò lei per lo più, la mia lingua era come paralizzata, e vi riporto tutto il dialogo come una sorte di monologo, omettendo i miei commentini imbarazzati ed estremamente confusi:

"Spero che tu abbia fatto un buon viaggio. Dov'è che hai fatto scalo per arrivare fin qui? A Bangkok, no? Ti è piaciuta? Non sopporto tutto quel traffico, lo smog che si deposita sulla gente, i grattacieli che incombono sui cittadini, proprio come quel furbone del loro re. Quando lavoravo all'Onu ho avuto a che fare con lui: un personaggio veramente sgradevole, viscidamente all'antica, pieno di soldi ma poca voglia di risollevare le sorti del suo popolo. Non che qua la situazione sia molto meglio, anzi, immagino che tu sia più che informato... la vita ti mette di fronte a delle scelte: la famiglia o la patria? L'amore o il dovere? Tu o gli altri? Io ho sempre fatto la seconda scelta, ogni volta, e oggi mi trovo qui, ultrasettantenne, vedova, quasi prigioniera in un paese che mi ama e mi odia allo stesso tempo, detestata dai miei stessi figli, vista con diffidenza da una parte del mondo occidentale che si aspettava chissà cosa da me... che ho fatto della mia vita? Spesso me lo chiedo. La colpa di tutto questo non è della gente, loro credono ciecamente in me e non riesco a soddisfare la loro inestinguibile sete di democrazia. Chiusa in questa casa, l'unico svago sono i libri che leggo a decine, accumulandoli uno dopo l'altro. Ed è così che ho conosciuto te: cercavo un commento al libro del santo Rondine Rossa (per chi non sapesse di cosa sto parlando faccio riferimento a questo) e l'unica cosa che ho trovato è stato il tuo racconto liberamente ispirato. Essendomi piaciuto così tanto mi sono letta, lentamente, tutti i tuoi articoli, cercando di rispolverare il mio italiano un po' arrugginito, e quando ho visto che saresti venuto proprio qui, a Yangon, ti ho fatto venire a prendere immediatamente! L'anno scorso avevi delle buone aspettative ma, ti sarai accorto, ti sei molto sottovalutato e, in cuor mio, leggendo i tuoi ultimi articoli penso che la cosa non sia cambiata, vero? La modestia è un'ottima arma, soprattutto se sincera, come nel tuo caso! Hai il dono di riuscire a farti un sacco di amici lungo il tuo percorso: quel Sommobuta, ad esempio, piuttosto che il Panda del Laboratorio di Vegapunk, Sabaku che ti ha addirittura dedicato un video, poi quel canale musicale, come si chiamava? Ah sì, Beyond the Record! Non solo, ti sei messo pure in contatto con quel Dall'Orto per le presentazioni di quel saggio. Tutte cose che, se te le avessero dette A Novembre del 2014, non vi Avresti mai creduto. E poi il premio Boomstick che hai vinto, chissà se quest'anno riuscirai in qualche modo a riaggiudicartelo! Vedo anche che hai cominciato a riscrivere i vecchi articoli, come promesso: un ottimo modo per non far invecchiare il blog e togliere le impurità! Poi si sono aggiunte tante rubriche, ciascuna molto importante per te, e ti sei pure avviato su Youtube. Sono certa, però,che di tutti il passo più importante sia stato quello di mostrare il tuo volto. Ogni insicurezza è passata, hai preso molta più confidenza, hai deciso di essere pienamente te stesso, nel corpo e nello spirito! Questa, forse, il passo avanti più forte del 2015, pari solo all'apertura del blog stesso. Inoltre noto che viaggi molto e, per me che sono rinchiusa qua, la tua sete di condivisione è una comoda finestra pure per me, che fa giovane ho viaggiato moltissimo! Ma dimmi, per l'anno prossimo? Non hai in mente progetti? Qualcosa mi dice che ti stai attivando per sfruttare al massimo le tue conoscenze e fartene di nuove: amici, creativi e colleghi, tutti quanti uniti per nuovi progetti! Le vie del futuro sono infinite: è inutile fare tanti progetti, qualunque essi siano, se ci si impegna, non solo saranno portati a termine ma risulteranno tutti più che soddisfacenti, ne sono certa! Il tempo deve fare il suo corso, lo stile cambia, e con lui i contenuti. Come diceva anche il buon Rondine Rossa, segui sempre il tuo cuore!"

Cancello dell'abitazione di San Suu Kii. 9 dicembre 2015.



Il racconto finisce qui. Certo, non è una di quelle cose che di solito si dice in fondo ai libri, ma oggi va così. Non è, ovviamente, sufficiente dal punto di vista narrativo: la gente normale a fare un racconto breve ci mette mesi, io 4 giorni: che potevate pretendere? L'ho scritto molto in fretta, appena tornato dal viaggio, e sinceramente mi serviva per ringraziare tutti quelli che hanno creduto in me fin'ora. E non è un grazie qualunque. Nel racconto avete letto qual'è stata la mia più grande conquista di quest'anno, e non è affatto sottile, proprio sul piano personale. Il mio augurio di buon anno va a tutti voi, se vi impegnate sono certo che anche i vostri sogni si realizzeranno, proprio come il mio!

martedì 1 dicembre 2015

Viaggio Sentimentale attraverso la Siria

Tra il 28 giugno e il 19 luglio del 2008 sono stato con la mia famiglia in Siria e Giordania. Quello di oggi non è un articolo per raccontarvi cosa ho visto ma, principalmente, chi ho conosciuto e le mie emozioni al riguardo. Quindi non aspettatevi lunghe descrizioni di paesaggi o monumenti perché, a volte, anche solo in una semplice frase si possono nascondere torrenti di emozioni.

Atterrammo a Damasco, dopo aver fatto scalo ad Aleppo, e mi ricordo che, mentre ci spostavamo verso l'hotel in centro col taxi, mi era subito saltata all'occhio una cosa: c'erano ancora delle case distrutte, come da un bombardamento di molti anni fa, che aleggiavano come fantasmi, invisibili ma reali, ai lati delle strade. Era la prima volta che mi trovavo di fronte a dei segni della guerra così reali, così vicini e all'epoca ero già abbastanza cosciente da capire il loro valore e significato. Mi è capitato di nuovo solamente un paio di anni fa in Bosnia e non è qualcosa che ci si dimentica facilmente. Damasco era vivace e caotica nei suoi suq (i vicoli del mercato) che portavano alla magnifica moschea centrale, una delle poche al mondo ad essere affrescata. Lì vicino si trova pure la tomba del celebre generale Saladino, una figura rispettatissima da parte degli stessi crociati. Una cosa ci tengo a precisare subito: mia madre ha girato col capo scoperto tutto il tempo, tranne che nelle moschee ovviamente, e nessuno ci ha mai detto qualcosa: ecco quello che succede a "non rispettare le loro usanze a casa loro" come blatera certa gente che, evidentemente, in certi posti non ha mai messo piede. Comunque, la città, abbastanza carina nel suo insieme, presentava il giusto mix tra oriente e occidente, si percepiva che lo stile di vita era, comunque, modellato su canoni Europei per buona parte. Il traffico, simile a quello del sud Italia, non ci ostacolò nel muoverci autonomamente per il paese.




Non mi metterò a raccontare ogni posto visitato ma solo qualche località significativa. Aleppo è, sicuramente, una di queste. Ho un vivido ricordo della bellissima cittadella che si erge al suo centro, tutta bianca e circondata da un liscio fossato che non lasciava scampo a chi ci finiva dentro. Scambiammo qualche parola anche con il guardiano che, orgoglioso, ci mostrò come avesse accolto e conosciuto Assad e consorte. Il suq, molto particolare, era pieno di quel famoso sapone a base di olio d'oliva che viene venduto nelle nostre profumerie: oggi questi vicoli sono andati a fuoco, divorati da un gigantesco incendio. Facemmo la conoscenza di una famiglia francese che aveva lì una bellissima casa dove si recava per l'estate: probabilmente è andata distrutta durante gli scontri. Tra i vicoli più moderni si trovava uno dei migliori ristoranti di tutta la Siria che serviva il celebre Kebab (carne saltata nel piatto, non il panino) con le ciliegie. Tantissima la gente di cui facemmo conoscenza, i volti e le piccole storie che potevano nascere anche da un'occhiata lanciata di sfuggita.

La meravigliosa Palmira, invece, si stagliava all'orizzonte su un panorama lunare intervallato da qualche antica colonna. Ricordo chiaramente l'astronomica temperatura pomeridiana di 51° che bloccava qualunque tipo di attività umana all'aria aperta. Il mattino dopo visitammo le incredibili tombe sotterranee, dei veri e propri buchi in quel deserto roccioso. Ricordo indelebile la cittadella su una vicina collina che, al tramonto, regalava
bellissimi giochi di luce rossastri. Allo stesso modo ho un vivido ricordo del Krak dei templari: questa è una delle fortezze più famose al mondo e si eleva, indomita, nel suo niveo candore sopra una vallata. Lì facemmo la conoscenza di un italiano, fotografo di professione, che si trovava a visitare questa meraviglia. Lui è una di quelle innumerevoli persone, guide e chiacchieroni di cui ricordo il volto, potrei descrivervi il modo di fare ma di cui non so altro. Quando ci ripenso mi chiedo se sono ancora vivi o che ne è stato di loro.

L'ultima località di cui ci tengo a parlarvi è Hama, la cittadina da cui è, difatti, iniziata la rivolta dei ribelli contro Assad. Famosa e caratteristica per le noriah, le gigantesche ruote da cui i ragazzi del posto si tuffano, lanciandosi da altezze incredibili. Alloggiavamo al Tower Hotel, altissimo, da cui si vedeva tutta la città antica, come in foto. Di questa cittadina, oltre la giovialità e l'allegria che la caratterizzavano, mi rimangono in mente tre cose. Un bambino che, da dietro, ci ha volutamente urtato nel centro storico, procedendo imbronciato per la sua strada, come se noi Europei gli avessimo fatto qualcosa di male. Dei ragazzi che si tuffavano dalle ruote, di cui mi chiedo cosa sia oggi. E un murales con rappresentato Assad circondato da un prato di rose rossissime.



Questo resoconto di viaggio si intitola, appunto, "Viaggio Sentimentale" perché non ha, ormai, alcuna utilità turistica. Quando vedo le oscenità che certa gente scrive su una popolazione che non conosce, la mia mente va a quella settimana e mezza e ai volti visti, le emozioni provate e non riesco a non chiedermi se siano vivi o morti, magari sotto un bombardamento o sul campo di battaglia. Io so di aver visitato posti bellissimi, ora ridotti in macerie, che non dimenticherò mai. E finché avrò in testa quella gente, quei luoghi e quelle emozioni non permetterò mai e poi mai che si parli in maniera ignorante e disinformata di una realtà che, a conti fatti, non era poi così dissimile dalla nostra. Se un certo appoggio lo potevo anche dare ai primi ribelli, sicuramente questi sostenitori dell'Isis non hanno affatto la mia approvazione: comprendo le loro ragioni, determinate non soltanto dal fanatismo religioso, ma ne condanno i modi e i propositi. Il mio pensiero va solo e solamente alla Siria e ai suoi civili che si sono visti distruggere, sotto i loro occhi, un paese bellissimo.


Con questo articolo vi saluto e vi do appuntamento a dopo Natale. Infatti, come chi mi segue su Facebook sa bene, nelle prossime tre settimane, dal 4 fino al 26, sarò in a Bangok e in Birmania. Diciamo che mi prendo una piccola pausa prima di riprendere, a pieno regime, col festeggiamento dei due anni di blog il 27! Come l'anno scorso ho già in mente di scrivere un mio racconto ma, per rimanere aggiornati, vi consiglio di controllare la pagina Facebook! Detto ciò, buone feste, buon Natale, buon tutto e ci si vede alla prossima!

venerdì 20 novembre 2015

L'anima della riscoperta (4): la terribile vendetta di Seneca!

Ciao e benvenuti tutti quanti a un nuovo spirito della riscrittura, la serie con cui sistemo e riscrivo i vecchi articoli! Mi scuso subito per il font poco felice ma, per problemi di formattazione, questo c'è per i prossimi articoli della collana (maledetto Libre Office!).  Oggi vi parlerò di una delle opere più particolari dell’età imperiale romana e che, a volte, non viene trattata a scuola. Sto parlando dell' "Apokolokyntosis" di Seneca (sì, proprio lui) anche conosciuta, in Italiano, come "la zucchificazione del divo Claudio".
Claudio (come non è mai stato)
Roma, 41 d.C. Dopo la congiura contro l'imperatore Caligola, sale al potere lo zio Claudio (10 a.C.-54 d.C.). Seppur non giovanissimo, decise di tenere le redini di un impero ormai vastissimo e molto eterogeneo, varcando le porte del palazzo imperiale, pieno di tranelli e trabocchetti orditi da un folto stuolo di adulatori, spie, concubine e altre figure dalla dubbia morale. E Claudio era proprio l’uomo che faceva per loro: ingenuo e anche, pare, leggermente ritardato, tutti si approfittavano di lui. Campionessa di inganni la moglie Messalina, famosa per la sua insaziabile ninfomania, almeno a quanto dice il poco affidabile Giovenale nella satira sesta. L'autore, certamente, ci è andato giù pesante con le ingiurie ma, di fronte a molteplici testimonianze, forse non si è inventato proprio tutto. Pare infatti che Claudio, completamente assoggettato ai capricci della consorte, le abbia procurato un giovane schiavo ballerino affinché ne potesse disporre come voleva. Ma a un certo punto decise di ribellarsi a Messalina con incredibile sadismo: quando gli comunicarono a cena che la moglie era morta avvelenata (sotto suo ordine, ovviamente) non se ne curò più di tanto e continuò ad assaporare il suo vino come se nulla fosse. Questo solo uno dei numerosissimi omicidi politici e delle nefandezze che commise a corte sfruttando il suo potere. Tanti i motivi per odiarlo, numerosissime le persone che ce l’avevano a morte con lui e, tra questi, vi era pure il nostro Seneca!
Ma quando Claudio salì al potere il filosofo non si trovava più a Roma. Da un paio d'anni, infatti, era stato esiliato da Caligola per aver difeso in modo troppo brillante una causa in tribunale e, pertanto, era da ritenersi un uomo pericoloso. In seguito, con la morte del suo persecutore, sperava finalmente di poter tornare in patria ma Claudio, invece, rimase insensibile ad ogni sua supplica.
Seneca
Molte le lettere che Seneca aveva cercato di fargli arrivare ma nulla si muoveva
: infatti Polibio, un liberto agli ordini dell’imperatore, incaricato di vagliare la posta diretta al regnante, le stracciava tutte in automatico! Seneca, l'integerrimo, disperato, arrivò addirittura a comporre un testo consolatorio a Polibio per la morte del fratello: nemmeno questa gran leccata, però, gli porto qualcosa. Diciamo che è una buona macchia sul curriculum, che si va ad aggiungere a diverse altre, per un uomo che predicava il disinteresse totale per la sorte terrena! Alla fine riuscì, finalmente, a tornare in patria solo nel 50 d.C. per intercessione di Agrippina, seconda moglie di Claudio nonché madre di Nerone, il futuro imperatore. In ogni caso a Seneca, decisamente, non era andato giù il comportamento del regnante e, quando quattro anni dopo il vecchio Claudio morì, poté finalmente sfogare tutto il suo odio, condiviso da molti, con un’opera molto particolare: l’ ”Apokolokyntosis”, appunto. Il termine viene da un'oscura parola greca
 e non è ben chiaro il perché di questa "zucchificazione".
Volendo riassumere il tutto in poche parole, l'opera inizia con la morte di Claudio che "emette" l'anima in bagno (la diarrea l’ha sempre accompagnato, fedele, per tutta la vita ma potrebbe anche esser stato avvelenato) che ascende all’Olimpo, come tutti gli spiriti degli ex imperatori, con l’intento di diventare una divinità. Lì fanno fatica a capire chi sia perché balbuziente ma, una volta riconosciuto, Augusto, schifato, lo manda nell'Ade (il nostro inferno) dove è condannato a giocare a dadi con un bussolotto bucato per l’eternità, isolato e odiato da tutti.
La trama sarà anche semplice ma le battute al suo interno, posso assicurare, sono pensate per divertire anche il lettore medio! Salta subito all’occhio la forza con cui Seneca si scaglia contro la figura dell’imperatore: si tratta di un genere letterario molto particolare: la satira menippea.

La satira, ci dice Quintiliano, è “un genere tutto latino” che affonda le sue radici in Lucilio, maestro del famoso Orazio. L’origine della parola satira è ancora oggi dubbia: c’è chi dice che derivi dal satiro, famoso per i suoi scherzi e l’aspetto buffo, oppure da "vassoio pieno di primizie", come simbolo dei diversi temi trattati all’interno della composizione. Le caratteristiche principali sono i brani di prosa e poesia mischiati, la diversità dei temi e il carattere comico e spietato delle composizioni. Quella di Seneca, particolarmente violenta, merita, però, l’appellativo di “menippea”.
Questa prende il nome da Menippo di Gadara, un filosofo cinico che amava insultare e prendere in giro tutti in maniera molto violenta e caustica, non curandosi dell'opinione pubblica. Addirittura il fondatore di questa scuola, Diogene di Sinope,detto il “Socrate pazzo”, viveva nudo in una botte che si portava sempre in giro e pare arrivasse addirittura a compiere atti osceni in pubblico per dimostrare la sua libertà dal mondo. Il personaggio, utilizzato da diversi autori come protagonista di opere satiriche, è rimasto un simbolo fortissimo e molto scomodo nella storia della cultura occidentale.

Vi consiglio caldamente di leggervi questo bel libretto, non rimarrete delusi! L'edizione Mondadori, l’unica che conosco ma so che di recente La VIta Felice ne ha proposta una nuova versione, presenta un’ottima traduzione, moltissime note e una ricca introduzione con, oltretutto, un prezzo molto basso! Se volete rimanere aggiornati sui prossimi articoli venitemi a trovare sulla pagina Facebook!


martedì 17 novembre 2015

"Letterarte's Meaning of Life" (02): il Vero Amore Esiste?


Ciao a tutti e benvenuti a questo secondo appuntamento con "il Senso della VIta", la rubrica in cui esprimo il mio irrilevante parere su questioni cruciali della nostra esistenza. Oggi, dopo aver visto la scorsa volta se la nostra vita è, effettivamente, inutile (qui), parliamo di amore. E non di amore qualunque ma del Vero Amore, quello che dura in eterno, totale incondizionato, che può portare fino alla morte. Tutti ne cantano, tutti ne parlano riempendosi la bocca di baci alla Nutella e guai a dire che non lo si è mai provato. Ma esiste veramente? Secondo me NO, e oggi vi spiego il perché.



Esatto, avete capito bene, per me non esiste il Vero Amore (e non ho paura a dirlo). Ma questo non significa che non esista in altre versioni meno pure. Questa mia affermazione parte dall'esperienza sensibile. Prendiamo un soggetto A e uno B il cui sesso non ci interessa. A ama B, e viceversa, in modo, a detta loro, purissimo. Ora, passa di lì un giorno C. A non smette di osservare C, è stato completamente conquistato, non capisce il perché ma lo trova molto più desiderabile di B: sarà il modo di parlare, quella grossa curva sul davanti o lo spazio vuoto accogliente come un caldo abbraccio... fatto sta che B, per quanto abbia delle belle forme, non è più il partner perfetto per A. Questo non vuol dire che lo odia ma, semplicemente, a rigore, C>B. E C, dal canto suo, stravede per A a tal punto da mollar tutto e andare con lui: celebrano l'unione e vivono felici e contenti per sempre. A, dunque, vivrà un'esperienza di vita migliore che con B nonostante reputasse questa insuperabile fino a poco tempo prima. B, dal canto suo, tutto triste per l'abbandono di A, pensa che non troverà mai nessuno come lui, con quella punta in cima così acuminata. Ma ecco che, un giorno, incontra D, l'opposto di quel bastardo di C. Subito se ne innamora e, corrisposto, inizieranno una nuova relazione. Tuttavia C non si trova bene e, ancora una volta, si lascia con D: il suo A è proprio insuperabile! Passa il tempo per il povero B che, però, un giorno fa la conoscenza di E che, di punte, ne ha ben tre! Ecco che arriva la felice conclusione anche per queste due lettere dell'alfabeto: entrambe non avrebbero potuto trovare di meglio, ora sì che sono perfettamente appagate!

Questa piccola storiella sull'alfabeto che simula un caso normale, al limite della banalità, per provarvi che il vero amore non esiste di per sé ma, al massimo, si può pensare di provarlo. Al mondo siamo tanti, tantissimi, come possiamo avere la certezza che da qualche parte non ci sia un compagno più consono a noi? Come facciamo a essere sicuri e a dare garanzia, anche al nostro partner, che non li tradiremo Mai e poi Mai, che non subentrerà la noia o una persona più interessante? Semplicemente non possiamo, non ci è dato saperlo ma non solo per un mero gioco di statistiche. Facciamo finta che l'amore, frutto di un'equazione complessa tra diversi fattori, sia quantificabile con un numero. I numeri sono infiniti, questa non è un'opinione, e i fattori possono sempre aumentare di valore. Non esiste un limite alle emozioni o, se esiste, non possiamo individuarlo, quantificarlo, e farlo nostro.

Mi potreste dire che i sentimenti non sono, però, "misurabili" o "calcolabili" e che, al contrario, sono il frutto del nostro istinto, di una parte irrazionale. Vero, vi risponderei, ma ne siete così sicuri? Allora, se volessimo metterla su questo piano di irrazionalità, è questa che spinge A ad andare con C e non un "calcolo matematico". Arrivati a questa conclusione, dove siamo arrivati se non al punto di partenza? A va con C perché "irrazionalmente" sente che è preferibile a B ma, comunque, il risultato sarà in tutto per tutto identico! Questo non vuol dire, però, che l'amore non esista in forme anche molto forti e pure, sia chiaro! Senza dei paletti la nostra vita è destinata, come un torrente che scende lungo il pendio della montagna, a correre giù sempre più rapida e tumultuosa, scoordinata tra gli argini dell'esistenza, fino a infrangersi tragicamente al suolo come una bellissima cascata e, da lì, perdersi e disperdersi in mare.


La vita è troppo breve e triste per non amare, magari non in maniera Perfetta e Vera, per carità, ma alla fine che importa quando hai qualcuno al tuo fianco?

venerdì 13 novembre 2015

Medea la Tragica: della Callas, di Pierpaolo Pasolini e della loro Medea.

Ogni anno dedico una piccola rubrica autoconclusiva in tre articoli su un personaggio legato al mondo della letteratura: l'anno scorso è toccato a Mary Shelley, l'anno prossimo a qualcuno il cui nome inizia per "F" (vediamo chi ci arriva) e quest'anno a Medea, la più famosa eroina tragica (se volete recuperarli basta cliccare sul pulsante "medea" in fondo all'articolo)! Maga potentissima, traditrice del suo popolo, assassina del fratello, è stata
abbandonata dal promesso sposo Giasone in una terra lontana e ostile per cui, in un impeto di follia, ha deciso di vendicarsi di tutto e di tutti trucidando i suoi stessi figli e fuggendo, poi, a cavallo di due draghi volanti. Oggi del mito di Medea rimangono numerosi adattamenti teatrali e cinematografici, oltre a una grandissima serie di riferimenti più o meno velati. Ad esempio, se osservate bene, nella prima parte di "Nymphomaniac" di Lars von Trier vi è una scena che la riprende quasi passo passo interpretata da una meravigliosa Uma Thurman. Oppure, altro esempio, qualche anno fa ho assistito a un'ottima interpretazione in salsa Torri Gemelle in cui l'accento è stato posto sulla diversità di culture e la difficoltà a comunicare nella società moderna. Ma quella di cui vi parlo oggi è la magistrale versione di Pasolini, semi-sconosciuta ai più, che vi dedicò un film con la Callas nel ruolo di Medea.

So benissimo che non tutti, anzi pochissimi, hanno visto questo film o sono arrivati fino alla fine. In effetti, come per molti film di Pasolini, si tratta di un'opera particolare e non di facile impatto. Per questo mi occuperò di parlarne in modo che possiate capir tutti quel che dico anche senza averlo visto per forza! La cosa che più può colpire del film è la stravaganza dei costumi, molto ricercati ed eccentrici, la location un po' astratta e l'alternarsi di lunghe scene senza dialogo ad altre dense di significato che calcano la tragedia. Ma andiamo con ordine.



I vestiti ricalcano quelli di popoli antichi e selvaggi e presentano moltissimi riferimenti a riti mistici e arcaici che Pasolini ama citare prendendo lo spettatore alla sprovvista: seriamente, avreste mai pensato a un sovrano Greco con un copricapo d'oro massiccio del Sud America? Orpelli d'oro, maschere di cartapesta, vesti variopinte svolazzanti e ninnoli vari abbelliscono la scena creando un'atmosfera bizzarra. Questa, come detto, è influenzata anche dal paesaggio. I Greci sembrano vivere inizialmente in una sorta di deserto, arrivano in Colchide, patria di Medea, e si ritrovano in un paesaggio simil-lunare con grosse montagne e abitazioni scavate nella roccia (tipiche, in realtà, dei monasteri Georgiani che, effettivamente, videro il popolo dei Colchi abitare sulle loro pendici) per poi finire il film... a Campo dei Miracoli a Pisa! Lo spettatore viene sballottato da destra a sinistra in un continuo vortice di culture, paesaggi e abbigliamenti che lo confondono e affascinano allo stesso tempo, definendo così il genio (o la
follia) di un Pasolini molto preso da questi rimandi culturali molto precisi e solo apparentemente casuali. In realtà un ordine vi è, bisogna stare molto attenti alle culture prese in considerazione, al loro contesto e, soprattutto, bisogna operare dei confronti e parallelismi nella storia (ad esempio l'arrivo degli Europei in America). Praticamente metà del film, fino al rapimento di Medea, è muto e solo dopo si infittisce di dialoghi sempre più accesi. Si arriva, addirittura, alla scena precedente all'uccisione dei figli in cui la Callas recita una parte di tragedia accompagnata da un vero e proprio coro arcaico composto di donne, muovendosi come doveva essere al tempo delle prime rappresentazioni, almeno stando a quanto ci è stato tramandato: si tratta di un preziosismo assolutamente non trascurabile e che porta l'intera opera su un piano superiore di spessore! Molto importanti e particolari i riferimenti alla magia del sole di Medea che, si vede, sono tratti direttamente da fonti antiche.


Pasolini opera, però, come suo solito, un abbassamento del mito al piano della quotidianità, una sua materializzazione e concretizzazione. Il racconto perde ogni aspetto magico e fantastico per essere adattato, invece, al duro realismo. Così la nave Argo, mitica imbarcazione parlante, altro non è che una zattera raffazzonata o la cetra del celebre Orfeo un rozzissimo strumento musicale. Ogni situazione è cruda e non richiede ulteriori astrazioni. Questo processo, che ha origini fin dagli stessi Greci, risulta originale usato su pellicola: non si cerca lo stupore dello spettatore ma il suo rispecchiarsi nella quotidianità.

Nel concludere questa serie su Medea, cosa potremmo dire? Non so voi ma io sono dell'idea che sia l'eroina tragica per eccellenza, forse il personaggio che meglio incarna la follia e l'amore. Un personaggio molto femminile e femminista, isolata dalla società che la circonda. Sostanzialmente, per quanto non sia "pulita", rimane sicuramente una vittima e non un carnefice. E voi, cosa ne pensate? 


martedì 10 novembre 2015

"Salò o le 120 Giornate di Sodoma" visto con gli occhi di un ventenne.

La scorsa settimana si è ricordato, e per alcuni celebrato, l'anniversario dei quarant'anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, uno dei più grandi intellettuali italiani del XXI secolo. Molte le commemorazioni: documentari, mostre e riproduzioni di suoi film. Tra questi, nella mia città, hanno proiettato la pellicola italiana più scandalosa che sia mai stata realizzata: "Salò o le 120 Giornate di Sodoma" (1975), il primo e unico capitolo della "Trilogia della Morte", seguito della celebre "Trilogia della Vita". Ne avevo visto solo qualche spezzone, ho letto il libro di De Sade, da cui è tratto, qualche anno fa e mi sono recato al cinema conscio di quello a cui sarei andato incontro ma curioso di ciò che ne avrei poi pensato: come può un ragazzo di poco più di vent'anni reagire a questa pellicola nel 2015?

Ebbene: "Salò o le 120 Giornate di Sodoma" è un film bellissimo che tutti dovrebbero vedere! Sono serissimo quando affermo che, date le aspettative per la fama che si porta dietro e letto il libro, pensavo fosse pure peggio. Pasolini opera un ottimo adattamento del libro Sadiano che non poteva che essere così. Ma procediamo con ordine.

Per comprendere il film bisogna sapere che cos'è la "Trilogia della Vita" e cosa sarebbe dovuta essere la "Trilogia della Morte". La prima è composta dal "Decameron", "Le Mille e una Notte" e "Canterbury Tales", tre raccolte di racconti dei secoli passati che avevano come centro tematico la visione della sessualità come giocosa partecipazione popolare in contrasto con la severità del potere ufficiale. Una presa di possesso del proprio corpo proletaria e sub-proletaria, come piaceva a Pasolini, ambientata in un'epoca d'oro, quasi mitica, e prettamente favolistica. In contrasto la "Trilogia della
Morte" avrebbe dovuto mostrare le brutture della modernità, le sue violenze tremendamente silenziose e i soprusi ingiustificati. Il potere ufficiale diventa, così, completamente anarchico nel senso che perde qualunque forma di controllo e si permette di decidere della vita e della morte dei suoi sottoposti. La manipolazione tramite bisogni borghesi imposti, il controllo dei media e la banalità del male sono tutti mezzi con cui siamo abituati alla negatività e al sopruso di potere. Pasolini, come De Sade, riassume il tutto in un'opera enciclopedia del male, un vero sguardo verso l'abisso nero dell'umanità. E il fascismo, come i nobili di fine 1700, incarnano in pieno questa negatività del presente.

Appare limpida e cristallina la totale e assoluta condanna di Pasolini, come anche di De Sade, a questo mondo di violenze indiscriminate: troppo spesso lo si ricorda associato a queste rappresentazioni, più che in contrasto. Egli, come anche il divin marchese, era ed è tutt'oggi una figura incredibilmente scomoda, di cui è meglio parlar bene per non sembrare troppo in contrasto con il libero pensiero ma che, sotto sotto, si disprezza, allontana e censura in modo a dir poco imbarazzante. Ricordiamoci solo della fine che fece Pasolini in seguito a quelle scomode indagini sui giri di soldi legati al petrolio... La verità non è che lo si fraintende, ma che lo si vuole fraintendere e affossare, sebbene il film sia inattaccabile per il valore che voleva avere e che, tutt'oggi, ha. Una polemica forte, certo, ma doverosa ("severa ma giusta" direbbe qualcuno) e, anzi, più vicina alle vittime rispetto a De Sade: qua i malcapitati, almeno alcuni, hanno una seppur minima tridimensionalità che nell'autore francese di fine 1700 non è concessa: c'è spazio solo per i carnefici e per le loro barbarie.


Tiriamo dunque le conclusioni: "Salò o le 120 Giornate di Sodoma" è un magnifico film di Pasolini che, però, si è destinati ad odiare se non si conoscono le giuste premesse. Giusto essere impressionati, non è un film per tutti, ma secondo me ci sono cose che Vanno affrontate, prima o poi, nella vita. E questo film ne è un esempio. Inaccettabile la cattiva fama della pellicola che, in parole povere, non poteva essere diversa da quel che è. Notevoli i riferimenti all'opera originale di De Sade, molto spesso ripresa paro paro. Il senso di disgusto del regista e dell'autore sono evidenti come la loro totale condanna degli eventi. E poi, seriamente, in quanti altri film avete visto, nei titoli iniziali, una bibliografia di documentazione del regista? Su, dai, siamo seri...

Ma questo è solo il parere di un ventenne che va al cinema nel 2015.

martedì 3 novembre 2015

Chi ha inventato la carta? Breve storia di una rivoluzione.


L'uomo, qualche millennio fa, dopo aver soddisfatto i suoi istinti primari ha sentito la necessità, l'istinto, di raccontare il mondo che lo circondava. All'inizio lo cantò, poi ne discusse e, infine, ne parlò per iscritto. La scrittura, appunto, come noi la conosciamo oggi arriva coi Greci (frase molto generica e decontestualizzata ma prendetela per quello che è) e nemmeno tanto presto, se era vista ancora da Platone come un "mezzo inferiore" rispetto all'oralità. Ma i tempi cambiarono e si decise che le parole, se scritte, erano meglio dei discorsi che si perdevano nella memoria ("Verba volant..."). E qui nacque il primo problema: dove scrivere? Certo, si usavano principalmente tavolette di cera o di argilla, più tardi rotoli di
papiro che però scarseggiavano e tanta, tanta pergamena. Questa, in particolare, richiedeva un sacco di lavoro ed era particolarmente dispendiosa: bisognava lavorare la pelle di un intero animale per molto tempo prima di riuscire a ricavarne una quantità misera di materiale. Per fortuna, però, l'inchiostro si poteva raschiare via e, sulla superficie opportunamente levigata, ci si poteva scrivere di nuovo: pensate a quanti testi sono andati perduti così! Oggi però, grazie alle più moderne tecnologie, riusciamo a ricostruire quello che è stato tolto ma si tratta, comunque, di scoperte recenti. Il punto su cui voglio focalizzarmi oggi, però, non è questo. Infatti nel Medioevo si iniziò a sentire l'esigenza di un nuovo materiale su cui scrivere, qualcosa di più comodo e meno dispendioso: era la nascita della carta.

Ma chi ideò la carta? Anche per quest'invenzione dobbiamo affidarci ai Cinesi che già l'adoperavano nel II sec. a.C. ! Presto questo nuovo materiale si propagò a macchia in tutto l'oriente fino ad approdare, di popolo in popolo, al Medio Oriente Arabo. Da qui riuscì presto a raggiungere le spiagge europee: abbiamo notizia di una cartiera in Spagna nel 1150 ma, in
realtà, questo materiale era già conosciuto dai Normanni in Sicilia. Vi siete mai chiesti quale sia il più antico documento in carta e dove sia conservato? Si trova attualmente all'archivio di stato di Palermo ed è un mandato che risale al 1109 della contessa Adelasia scritto in Greco e Arabo! Tuttavia in questo periodo l'uso della carta era molto limitato perché considerato, a tutti gli effetti, un materiale molto più fragile della pergamena e, dunque, poco affidabile: per un suo utilizzo massiccio dovremo aspettare l'invenzione della stampa.

D'altra parte la carta era fatta, all'epoca, in modo molto differente rispetto a oggi. La base, infatti, non era costituita da materiali vegetali uniti da del collante ma stracci di stoffa battuti e ridotti minuziosamente in polvere. Questo processo, particolarmente lungo e faticoso, fu semplificato dagli ingegneri Arabi che inventarono il sistema dei magli a due teste che, fatti funzionare grazie a un meccanismo ad acqua, battevano instancabilmente gli strofinacci senza che ci fosse bisogno dell'intervento dell'uomo. Nell'impasto di polvere e acqua, accuratamente miscelati, veniva immerso un telaio dalla rete fittissima che, una volta estratto, lasciava su di sé solo un
Antiche filigrane
leggerissimo strato di poltiglia. Questo, asciugato e trattato, diventava poi il foglio di carta. Solo successivamente si pensò dispalmarci sopra della colla in modo da rendere il materiale più resistente e meno "assorbente". Dal XIII secolo, poi, venne introdotta la "filigrana", un motivo particolare nel setaccio che lascia un vero e proprio segno di fabbricazione, concetto che viene ora usato sulle banconote per distinguere i falsi. Il primato di questa produzione, spetta, anche qui, all'Italia e, in particolare, alla città di Fabriano!


La storia delle cose che ci circondano non è mai scontata e banale e mi piacerebbe portarla avanti. Questa cosa, però, non posso farla da solo e non mi prendo decisamente tutto il merito di quello che vedete riportato qui sopra! Infatti è tutto tratto e riproposto a partire da un capitolo di "Medioevo sul Naso" di Chiara Frugoni (Laterza) che vi consiglio Vivamente di acquistare se volete saperne di più e che ho utilizzato anche per il mio precedente articolo sulla nascita degli occhiali. Vi ringrazio per aver letto fin qui, vi ricordo di venirmi a trovare sulla pagina Facebook e vi do appuntamento a venerdì!

martedì 27 ottobre 2015

Speciale Halloween (2): yokai e manga: tra cultura pop e tradizione.

Ciao e bentornati a un nuovo articolo! Oggi torniamo a parlare di yokai e della loro enorme influenza nella cultura fumettistica giapponese. Se non sapete di cosa sto parlando vi consiglio vivamente di andarvi a leggere il mio ultimo articolo (QUI), giusto per vedere cos'è uno "yokai". Altra piccola premessa prima di iniziare. Ho scelto, oggi, di parlare di yokai e manga solo per un discorso di comodità, non pensate, però, che l'influenza di queste creature si sia limitata solo a questa forma di intrattenimento. Statue, dipinti e incisioni hanno come soggetto gli yokai e si possono osservare quotidianamente in Giappone: qua vi offro solo una finestra su un panorama complesso e intricato, non una visione completa della loro influenza. Per lo stesso motivo non posso parlare di tutti manga e di tutti i riferimenti ma solo di alcuni a me più noti, segnalatemi voi nei commenti quelli che mi son perso!

Il mangaka che più di tutti si è occupato del "fenomeno" yokai è, senza ombra di dubbio, Shigeru Mizuki, una vera pietra miliare della storia del genere. Molto poco conosciuto in Europa, in Giappone ha cresciuto intere generazioni e dalla sua opera più famosa, "Kitaro dei Cimiteri" (Ge Ge Ge no Kitaro, sì, proprio quello della canzone di Caparezza), continuano ad essere tratti film ancora oggi. Il protagonista è un piccolo mostro che vive straordinarie avventure insieme al padre reincarnatosi nel suo occhio
sinistro (non a caso si chiama Daddy Eyeball): incontreranno ogni volta nuovi e sorprendenti yokai, frutto delle decennali ricerche per i vari paesini della campagna da parte dell'autore. Il risultato di queste complicate ricerche è poi esposto dallo stesso Shigeru Mizuki in una bellissima "Enciclopedia dei Mostri Giapponesi" edita in Italia dalla Kappa Edizioni. A Sakaiminato, città natale dell'autore, è stato dedicato un museo al mangaka e ai suoi yokai mentre la via principale è costellata di statuette di bronzo raffiguranti i mostri diventati celebri ormai in tutto il Giappone. Ci sono stato 4 anni fa ed è certamente una tappa che merita se siete interessati all'argomento!

Gli yokai di Shigeru Mizuki hanno formato generazioni di mangaka ma, sinceramente, negli anni passati non ho mai visto una rappresentazione sbalorditiva e stupefacente come quella che si trova in Gantz tra i capitoli 228 e 282, la celebre saga di Osaka. Sfortunatamente i volumetti corrispondenti (22-26) in Italia sono praticamente introvabili ma ora sono in corso di ristampa, quindi tra non troppo potrete gustarvi questa parte! In ogni caso, tanto per riassumere la vicenda, la città Osaka viene invasa da alieni-yokai spietati e incazzatissimi. Da notare come l'autore, Hiroya Oku, abbia rispettato tutti i caratteri tipici delle creature raccolte da Mizuki (il "re degli Yokai" esiste realmente e ha quell'aspetto) ma ne ha proposta una rivisitazione. Se i primi appaiono innocui e cartooneschi, quasi simpatici e giocosi, i secondi, invece, rivelano la loro natura di mostri terribili e sanguinari, brutti nei loro dettagli resi in maniera così vivida e realistica.

"Kamaitachi"
Gli yokai che, invece, più spesso vengono ripresi sono i Tanuki e i Kappa anche se, a dire il vero, il primato spetta a un'altra creatura. Si tratta del Kamaitachi, una donnola in grado di generare un potente vento tagliente. Come potete immaginare, quindi, in ogni shonen c'è almeno uno spadaccino in grado di utilizzare una tecnica simile: da Naruto a One Piece, passando per Bleach e Shaman King, la lista si allunga ai meno conosciuti e commerciali!

Le creature che, però, forse hanno tratto più ispirazione dagli yokai sono di certo i Pokémon. Ora, questi sono più di 500 e di certo non posso mettermi a fare l'analisi di ciascuno punto per punto ma, giusto facendo qualche esempio, ricordo che Sneasel, Golduck, Jynx, Klefki, Shiftri, Snorunt, Froslass e molti altri sono, più o meno esplicitamente, ispirati a degli yokai!

Un'ultima menzione che ho volutamente lasciato alla fine per SPOILER riguarda il manga Toriko, quindi occhio a non rovinarvi la sorpresa e, se preferite, passate oltre. Infatti l'ingordo protagonista insieme alla sua compagnia giunge in un paese, nella zona selvaggia del mondo, popolato interamente da yokai: kappa, tengu e altre strane creature (anche se il Daruma non è un mostro) custodiscono, nel loro territorio, una vera prelibatezza! Interessante come qua si sia tornati su un piano più alla Shigeru Mizuki, giocoso e "user friendly", al contrario del crudo realismo di Gantz, pur dando delle nuove linee agli yokai, diverse da quelle "tipiche" dei vecchi manga tradizionali (alla Doraemon, per intenderci).

In giro trovate decine di fan art di pokémon rappresentati come yokai: sono bellissime!



Pensate forse che abbia finito qui? Ovviamente no! Infatti il 31 uscirà un articolo scritto a quattro mani con il buon Panda de "Il Laboratorio di Vegapunk" sul suo blog dal titolo "Speciale Halloween: Yokai, dal folklore a One Piece" come completamento di questo! Ovviamente vi farò avere il link e vi terrò aggiornati anche sulla pagina Facebook. Per il momento vi saluto, e vi auguro una buona settimana!

martedì 20 ottobre 2015

Speciale Halloween (1): Yokai, i Mostri Giapponesi!



Ogni cultura, anche la più lontana dalla nostra, ha sviluppato, nel corso dei secoli, e continua tutt'ora, a sviluppare un immaginario fantastico. Con "immaginario fantastico" intendo una serie di figure inventate che popolano le menti della gente immersa nella banalità e povertà quotidiana per farle evadere dalla realtà. Queste forme, che possono avere le origini più disparate, hanno due caratteristiche fondamentali: l'eternità e l'assorbimento
Tofu Kozo
inconscio. L' "immaginario fantastico" è in continuo movimento e formazione, creandosi e annullandosi col passare del tempo: si generano costantemente nuove immagini mentre altre si perdono. Un esempio? Il mostro di Frankenstein, da noi sempre associato ad Halloween o, in generale, all'immaginario macabro Europeo viene accostato al lupo mannaro che, invece, nasce già al tempo dei romani. Altre figure, invece, si sono perse più o meno completamente: Barbablù si è trasformato da mostro a fatto di cronaca. L'assorbimento inconscio, invece, si spiega abbastanza da sé e, in parte, ne ho già accennato prima. Il mostro di Frankenstein, sempre. Quanti di voi hanno letto il romanzo di Mary Shelley? Non tutti, ma TUTTI sanno chi sia questa creatura e che aspetto abbia, non c'è bisogno di raccontarlo. Così, per dire, se in giro vediamo il disegno di un personaggio con due viti nelle tempie cogliamo immediatamente la citazione, senza doverla interpretare.

Miage-Nyudo
Questi presupposti, magari un po' noiosetti e apparentemente inutili, sono fondamentali per poter comprendere che cosa sono gli "Yokai". Potremmo tradurli in vari modi e ciascuno sarebbe, a suo modo, solo parzialmente corretto: mostri, demoni, spiriti tutti, però, di origine Giapponese. Il fenomeno, infatti, è importante notare come sia proprio di questa terra profondamente tradizionalista e che fino al 1843 è rimasta chiusa in sé stessa. Questo ha portato a un rafforzamento notevole delle tradizioni locali e a un fortissimo assorbimento nell'immaginario fantastico collettivo. Per questo molti riferimenti nell'arte o nei fumetti possono sembrarci confusi o insignificanti mente per loro sottendono un insieme di significati molto forti.

Come detto, non esiste una traduzione univoca perché possono essere di tantissimi e numerosissimi tipi. I più famosi sono i Tanuki e i Kappa, il primo un procione trasformista, il secondo una sorta di folletto anfibio che vive negli stagni. Ma, in realtà, possono anche essere oggetti dimenticati che si animano (Bakezori), figure demoniache (Kageonna), mostri terribili (Satori) ma anche spiritelli dispettosi (Betobeto San) e creature mistiche (Baku). Al di là di tutti i mostri che si possono incontrare (sono più di 200 e con lunghe descrizioni!) è interessante chiedersi come nascono e perché sono così importanti nella società Giapponese.
Satori
La maggior parte nasce, molto "banalmente", per spiegare fenomeni sconosciuti che, infatti, spesso avvenivano la notte quando non si vede nulla. Così uno yokai nuvoletta che si nasconde nei campi e imprigiona i piedi dei malcapitati che lo calpestano non è che un cumulo di melma particolarmente denso, una distesa di mani che ti accarezza delle canne
Namahage
smosse dal vento e una trave volante che schiaccia le persone un tragico incidente. Come potete intuire da questi esempi la stragrande maggioranza degli yokai popola la campagna, buia e oscura, e ogni avvenimento che non si riesce a spiegare è attribuito a un essere speciale. Questo vale anche per sensazioni spiacevoli come quella di essere seguiti (Betobeto San) o per luoghi poco piacevoli in cui stare al buio come le latrine (soprattutto se non ci sono fogne). Altri spiriti ancora sono la concretizzazione di moniti o atteggiamenti da seguire o meno: il demone dell'accidia che perseguita chi non fa il proprio dovere (stiamo sempre parlando del Giappone, non a caso) e l'orchessa che si nutre dei bambini che, in città, si rivolgono agli sconosciuti sono ottimi esempi. Altri tipi di yokai sono quegli esseri che provengono dal mare: come nel Medioevo in Europa, anche in Giappone vi era molto timore delle creature che abitavano le profondità marine. Curioso il fatto che vi sono, inoltre, creature molto simili tra le due culture: anche loro hanno le sirene e i "monaci di mari", una sorta di tritoni dalla parte superiore simile a un religioso. Infine, categoria quasi a sé stante, quella dei vecchi oggetti dimenticati. Anche questi hanno, per gli orientali, una loro anima che reclama attenzione: potenzialmente TUTTO può essere uno Yokai!

Hashi Hime



Per oggi mi sembra di aver messo molta carne al fuoco ma non temete che martedì prossimo tornerò sull'argomento parlando dei riferimenti a questi Yokai nei manga. Ne parlo nel prossimo articolo, ma già vi anticipo, se volete, dove trovare tutto quello che vi serve su questi mostriciattoli. La Kappa Edizioni ha pubblicato "L'Enciclopedia dei Mostri" di Shigeru Mizuki, un grandissimo mangaka (autore di manga) che è anche la più grande fonte per quest'articolo. In questo bel volumetto troverete raccolti gli yokai in ordine alfabetico con bellissime illustrazioni (quelle di quest'articolo) e lunghe descrizioni! Altrimenti, per conoscerli tutti assieme, da qui fino al 31 ogni giorno a mezzanotte pubblicherò sulla pagina Facebook uno yokai con tanto di descrizione: venite a trovarmi oppure ci si vede martedì prossimo!


martedì 13 ottobre 2015

L'Anima della Riscoperta (3): l' "Anti-Justine" di Restif de la Bretonne


Di solito libri che compro non sono scelti a caso: ho, quantomeno, una vaga idea dell'argomento o dell'autore. Raramente, quindi, mi capita di rimanere talmente scioccato in negativo da un titolo da non riuscire a finirlo. Ho cercato per molto tempo "L'Anti Justine" (1798) di Restif de la Bretonne e, quando lo trovai alla Feltrinelli di Genova, ero fuori di me dalla gioia. Ma la sensazione durò poco, molto poco. Non sono riuscito né a finirlo né a riprenderlo in mano a due anni di distanza e non ne ho la benché minima intenzione al momento. Per rendervi partecipi del mio disagio andiamo a vedere insieme la trama!

La trama non esiste. L'anonimo protagonista dall'incredibile sfilza di nomi imbarazzanti si limiterà a riempire ogni concavità gli si pari davanti fin dalla tenerissima età. Fine. Parenti, animali, nobili, prostitute, paggi o oggetti: nulla può dirsi al sicuro! Non esiste una sottotrama di alcun tipo, neppure abbozzata, il che collabora a rendere il tutto estremamente patetico e ridicolo. I titoli dei vari capitoli, poi, sono un programma! Passiamo da Il
Bambino che Già Rizza” a La Madre Fottuta” passando per Il Più Delizioso Degli Incesti” e uno dei più divertenti: Consigli di un Padre Mentre Sta Chiavando la Figlia”. Non aiutano la comprensione dell'opera anche i nomi dei personaggi che diventano, man mano che si sposano, sempre più lunghi e complessi, cambiando quasi di capitolo in capitolo. Per stessa ammissione del traduttore, tra l'altro, ci vien detto che non solo i nomi sono ininfluenti in un’opera del genere, ma che lo stesso Restif sbaglia in più punti i vari rapporti di parentela!

Quello che mi ha fatto decisamente sorridere sono tutte le esagerazioni sessuali tipiche dei più ingenui e inesperti pornografi che pensano che "più è, meglio è". Oltre ai classici giganteschi peni mortali, al liquido seminale usato come colazione prima di andare dal promesso sposo e le prestazioni fisiche degne di un treno a vapore, quello che più mi ha sconvolto è la TOTALE incoerenza delle azioni. Non sono esseri umani, ma nemmeno animali, è un continuo susseguirsi di atteggiamenti assolutamente irreali, di molto al di là della barriera della plausibilità!

La differenza principale tra Restif e De Sade è che mentre il primo scrive quest' obbrobrio per stupire,per far vedere che anche lui non è da meno del suo rivale e che non servono tanti giochi per divertirsi o cose complicate, il secondo ha dato piena concretizzazione al pensiero filosofico del libertinismo portandolo agli estremi, creando una para-filosofia del peccato e aprendo di fronte all'uomo il baratro del Male. La differenza tra un pornografo e un filosofo.
Tirando le somme: un’opera nata dall’ invidia per il capolavoro del rivale e destinata a morire ignorata dai più che, invece, ammirano il capolavoro Sadiano. Bisogna aggiungere altro? L’edizione italiana è, in ogni caso, ottima e molto ben curata della ES da €21,00. Manco a dirlo, vi sconsiglio vivamente l’acquisto ma, se siete curiosi, perché no?
L'originale articolo di 6 pagine è stato tagliato a 2 eliminando volgarità inutili e imbarazzanti ma non pensiate che abbia tagliato dei contenuti, anzi! Sfortunatamente il libro è solo questo, un imbarazzante ammasso di volgarità! Le prossime volte ci sposteremo in estremo oriente e faremo un piccolo viaggio attraverso la cultura giapponese per approdare tutti insieme al 31! Per scoprire di che si tratta venitemi a trovare sulla pagina Facebook! Grazie a tutti per l'attenzione, ci vediao martedì prossimo!