giovedì 31 dicembre 2015

Speciale racconto due anni del blog: "Tea Party"

Faceva un freddo cane quel 5 dicembre, alle 6 della mattina, all'aeroporto di Malpensa. Vestito di soli pantaloni leggeri lunghi, felpa e maglietta (oltre la biancheria intima e le scarpe, si intende), stavo io, scaricato davanti alla porta 4 del primo terminal, solo e tremante come una foglia, in una mano il trolley, nell'altra il passaporto e un solido zaino blu sbiadito di tessuto sulle spalle, pieno zeppo di libri e vestiti. Il Myanmar, un tempo Birmania, mi stava aspettando o, meglio, io non vedevo l'ora che l'aereo mi portasse il più lontano possibile dalla mia città. Le pareti umide, l'aria malsana e gli sguardi della gente di provincia si erano rivelati un cocktail micidiale per il mio umore nell'ultimo periodo e avevo un disperato bisogno di staccare dalla realtà. Per questo avevo scelto, di tutti i posti, uno dei più caldi e lontani dall'occidente del mondo. Inoltre il regime militare dell'odierno Myanmar aveva aperto le porte al turismo da pochi anni e bisognava approfittarsene prima che piccole realtà autentiche si trasformassero in autentiche, nuove, caotiche Bangkok. Era la prima volta che mi recavo in un paese problematico come quello e non sapevo, sinceramente, cosa aspettarmi. Ovviamente qualunque mia costruzione mentale sarebbe stata, da lì a poco, spazzata via come un castello di carte fragilmente assemblato da un gruppo di vecchi ubriachi in uno sporco bar di Phoenix.

Diverse ore di aereo, scalo ad Abu Dhabi, diverse ore d'aereo, arrivo a Bangkok. Una città caotica per chi non è mai stato nei suk di Damasco, piena di palazzoni di cemento che sovrastano una folla di gente che, per strada, ingurgita noodles in brodo circondata da una fitta nube di smog. Gigantografie del re campeggiano ad ogni angolo della città, in mezzo ai vialoni, sulle facciate degli uffici governativi: un vomitevole miscuglio di Mussolini, regina Elisabetta II e il Grande Fratello con due fette di totalitarismo e una spruzzata di pessimo gusto sopra. Fortunatamente rimango solo due giorni in quella città così soffocante e opprimente per poi dirigermi, finalmente, alla volta di Yangon, l'ex capitale della ex Birmania, ora sostituita da Naipidaw, la città fantasma, fatta costruire in fretta e furia dal regime per trasferirsi in questa sorta di isola elitaria.

L'aereo non ci mette che un'oretta scarsa, tempo di arrivare in centro, lasciare giù il bagaglio, e sono subito fuori, sotto il caldo cocente, tra lo smog cittadino e il caos dei cantieri pieni di operai che tirano su alte palazzine. L'atmosfera è molto diversa, la povertà e percepibile immediatamente, quasi palpabile, ma una povertà felice, spensierata, di gente ignara di cosa vi sia dall'altra parte del mondo. Lente processioni di giovani monaci, testa rasata, sandali ai piedi e tunica rossa, raccolgono il riso nelle ciotole per l'elemosina che tengono a tracolla mentre si rinfrescano con grossi ventagli di velluto amaranto. Yangon ha qualche bel tempio da offrire, in particolare la Shwedagon Paya, uno stupa dorato gigantesco che si impone sul panorama cittadino con le sue proporzioni mastodontiche. Moderatamente soddisfatto dalla giornata, me ne stavo tornando in hotel tutto tranquillo, la sera, quando, improvvisamente, la mia tranquilla vacanza prese una piega inaspettata.

Ad aspettarmi davanti all'hotel c'era un macchinone enorme, tutto nero, coi vetri oscurati. Leggermente intimidito, facendo finta di nulla, passai oltre ma non feci in tempo a metter piede nella hall dell'albergo che si aprì la portiera e ne uscì un birmano basso e grassoccio, difficile dire l'età. Anche se il buio regnava, unico padrone, sulle strade di Yangon, indossava dei grandi occhiali da sole neri, in tinta con la macchina. Mi guardò con attenzione ed emise dei suoi simili a un "A yiu miste Giadina?". Sul subito non capii, la pronuncia era decisamente pessima e ero molto provato dalla giornata. "A yiu miste Giadina?" tuonò, decisamente più seccato di prima. Con un piccolo sforzo capii che ce l'aveva con me e, sudando freddo, gli risposi "Yes, it's me". Apparentemente soddisfatto, le labbra serrate in un sorriso professionale, aprì la portiera accanto all'autista e, con un secco ma deciso movimento della testa, mi invitò a mettermi seduto. La mamma mi ha sempre detto di non accettare caramelle dagli sconosciuti, ma non aveva mai accennato a fondine che spuntano in modo tattico dalle giacche. Sudando freddo copiosamente, trattenendomi dall'urlare come un dannato, mi sedetti rigidamente sul sedile, lo sguardo fisso davanti a me, tutti i 752 muscoli contratti, lo stomaco attorcigliato, tutto annullato. Egli si sedette accanto a me e, sfoderando un sorrisone a 48 denti rossi annullati dal betel, mi porse la mano dicendo "Nay Min Ko". Rimasi paralizzato qualche istante, poi accennando un pallido sorriso decisamente poco convincente ricambiai il gesto senza aprir bocca. Il viaggio fu breve ma sembrava durare secoli. Percorremmo silenziosamente gli affollati vialoni di Yangon verso nord, in direzione della Shwedagon, per poi svoltare in un viottolo fiancheggiato da ambasciate e ville lussuose. Ovviamente non dicevo nulla, ci mancherebbe altro, ma dentro di me mi era ben chiaro che qualcuno mi cercava, qualcuno non di poco conto. Ma chi? Chi poteva desiderare la mia presenza in Myanmar, a Yangon, l'8 di dicembre? Finalmente spuntammo su uno stradone deserto dove ci fermammo ai lati, aspettando che un grigio cancello, fiocamente illuminato da due lampioncini, si aprisse dall'altra parte. Non riuscii a scorgere nulla, nel mentre l'auto prudentemente entrava dentro, ma con la coda dell'occhio intravidi una bandiera rossa. La macchina fece qualche metro e si fermò in un ampio piazzale dove un maggiordomo, elegantemente vestito con una livrea di gusto occidentale, simile a un marinaretto, mi aprì la portiera. Disorientato uscii ed egli, con un sorrisone a 59 denti, mi disse, in un inglese a dir poco impeccabile "The Lady is waiting for you. Would you please follow me inside, sir?" e mi condusse attraverso un giardino curatissimo, camminando su un sentierino di ciottoli illuminato dalla fioca luce dei lanternini, fino a una bella casa occidentale a due piani. Salii i due gradini che portavano alla veranda quando la porta si aprì e mi venne incontro San Suu Kyii.

Se qualcuno mi chiedesse ora perché non sono cascato a terra svenuto, sinceramente non saprei rispondergli. La situazione era così irreale da superare qualunque barriera logica e razionale. Ricordo chiaramente di come mi chiese, sempre in inglese (da qui in poi traduco tutto in italiano per comodità) come fosse andato il viaggio e se volevo una tazza di tè. Invece qualunque traccia di una mia risposta è annullata dalla mia mente, terrorizzata e annichilita dall'improvvisa apparizione. I ricordi si fanno più vividi da quando mi sono seduto su una bianca poltrona di pelle nell'accogliente salotto che si affacciava sul lago Inya. Quella sera parlò lei per lo più, la mia lingua era come paralizzata, e vi riporto tutto il dialogo come una sorte di monologo, omettendo i miei commentini imbarazzati ed estremamente confusi:

"Spero che tu abbia fatto un buon viaggio. Dov'è che hai fatto scalo per arrivare fin qui? A Bangkok, no? Ti è piaciuta? Non sopporto tutto quel traffico, lo smog che si deposita sulla gente, i grattacieli che incombono sui cittadini, proprio come quel furbone del loro re. Quando lavoravo all'Onu ho avuto a che fare con lui: un personaggio veramente sgradevole, viscidamente all'antica, pieno di soldi ma poca voglia di risollevare le sorti del suo popolo. Non che qua la situazione sia molto meglio, anzi, immagino che tu sia più che informato... la vita ti mette di fronte a delle scelte: la famiglia o la patria? L'amore o il dovere? Tu o gli altri? Io ho sempre fatto la seconda scelta, ogni volta, e oggi mi trovo qui, ultrasettantenne, vedova, quasi prigioniera in un paese che mi ama e mi odia allo stesso tempo, detestata dai miei stessi figli, vista con diffidenza da una parte del mondo occidentale che si aspettava chissà cosa da me... che ho fatto della mia vita? Spesso me lo chiedo. La colpa di tutto questo non è della gente, loro credono ciecamente in me e non riesco a soddisfare la loro inestinguibile sete di democrazia. Chiusa in questa casa, l'unico svago sono i libri che leggo a decine, accumulandoli uno dopo l'altro. Ed è così che ho conosciuto te: cercavo un commento al libro del santo Rondine Rossa (per chi non sapesse di cosa sto parlando faccio riferimento a questo) e l'unica cosa che ho trovato è stato il tuo racconto liberamente ispirato. Essendomi piaciuto così tanto mi sono letta, lentamente, tutti i tuoi articoli, cercando di rispolverare il mio italiano un po' arrugginito, e quando ho visto che saresti venuto proprio qui, a Yangon, ti ho fatto venire a prendere immediatamente! L'anno scorso avevi delle buone aspettative ma, ti sarai accorto, ti sei molto sottovalutato e, in cuor mio, leggendo i tuoi ultimi articoli penso che la cosa non sia cambiata, vero? La modestia è un'ottima arma, soprattutto se sincera, come nel tuo caso! Hai il dono di riuscire a farti un sacco di amici lungo il tuo percorso: quel Sommobuta, ad esempio, piuttosto che il Panda del Laboratorio di Vegapunk, Sabaku che ti ha addirittura dedicato un video, poi quel canale musicale, come si chiamava? Ah sì, Beyond the Record! Non solo, ti sei messo pure in contatto con quel Dall'Orto per le presentazioni di quel saggio. Tutte cose che, se te le avessero dette A Novembre del 2014, non vi Avresti mai creduto. E poi il premio Boomstick che hai vinto, chissà se quest'anno riuscirai in qualche modo a riaggiudicartelo! Vedo anche che hai cominciato a riscrivere i vecchi articoli, come promesso: un ottimo modo per non far invecchiare il blog e togliere le impurità! Poi si sono aggiunte tante rubriche, ciascuna molto importante per te, e ti sei pure avviato su Youtube. Sono certa, però,che di tutti il passo più importante sia stato quello di mostrare il tuo volto. Ogni insicurezza è passata, hai preso molta più confidenza, hai deciso di essere pienamente te stesso, nel corpo e nello spirito! Questa, forse, il passo avanti più forte del 2015, pari solo all'apertura del blog stesso. Inoltre noto che viaggi molto e, per me che sono rinchiusa qua, la tua sete di condivisione è una comoda finestra pure per me, che fa giovane ho viaggiato moltissimo! Ma dimmi, per l'anno prossimo? Non hai in mente progetti? Qualcosa mi dice che ti stai attivando per sfruttare al massimo le tue conoscenze e fartene di nuove: amici, creativi e colleghi, tutti quanti uniti per nuovi progetti! Le vie del futuro sono infinite: è inutile fare tanti progetti, qualunque essi siano, se ci si impegna, non solo saranno portati a termine ma risulteranno tutti più che soddisfacenti, ne sono certa! Il tempo deve fare il suo corso, lo stile cambia, e con lui i contenuti. Come diceva anche il buon Rondine Rossa, segui sempre il tuo cuore!"

Cancello dell'abitazione di San Suu Kii. 9 dicembre 2015.



Il racconto finisce qui. Certo, non è una di quelle cose che di solito si dice in fondo ai libri, ma oggi va così. Non è, ovviamente, sufficiente dal punto di vista narrativo: la gente normale a fare un racconto breve ci mette mesi, io 4 giorni: che potevate pretendere? L'ho scritto molto in fretta, appena tornato dal viaggio, e sinceramente mi serviva per ringraziare tutti quelli che hanno creduto in me fin'ora. E non è un grazie qualunque. Nel racconto avete letto qual'è stata la mia più grande conquista di quest'anno, e non è affatto sottile, proprio sul piano personale. Il mio augurio di buon anno va a tutti voi, se vi impegnate sono certo che anche i vostri sogni si realizzeranno, proprio come il mio!

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