martedì 28 gennaio 2014

Collana "A Bordo di Libro" (titolo provvisorio), ep.0: Il Viaggio Come Supermanto di Ogni Limite: Thule e l'opera di Antonio Diogene


Chiusi nella nostra stanza, il capo chino sui libri e l’aria, sempre più viziata, ormai irrespirabile è inevitabile che il nostro sguardo cerchi la libertà fuori dalla finestra: il sole splende scintillante, gli uccellini volano liberi da qualunque legame nel cielo limpido e tutto sembra pieno d vita (immagini bucoliche a caso). In questi momenti vorremmo essere in posti sconosciuti, lontanissimi, circondati da suoni, odori e colori indescrivibili… ma il corpo rimane legato alla nuda, fredda e grigia realtà. Viaggiare, muoversi e ampliare le proprie conoscenze è il principio primo che ha portato l’uomo a essere più civilizzato e aperto, a entrare in contatto con comunità dagli usi e i costumi molto diversi dai suoi (e poi a bombardarlo coi droni, ma questa è un’altra storia). Ma come abbattere queste barriere spazio-temporali che ci tengono legati tra le quattro mura di casa nostra (ovviamente senza utilizzare un disintegratore di materia al plutonio arricchito)? Uno dei modi più semplici e rapidi è quello di accendere il cervello (sempre che riusciate a trovare l’interruttore), aprire un libro e immedesimarsi, anima e corpo, con il contesto vissuto dal protagonista della nostra storia. Ed è proprio questo il proposito della mia nuova collana! Ci addentreremo in terre lontane e leggendarie popolate da essere bizzarri e mostruosi (no, niente rettiliani, mi dispiace) che ci sorprenderanno con il loro aspetto e le loro inusuali abitudini.

Ma ci serve un punto di partenza comune, un “gate” a cui ritrovarsi (come i gruppi organizzati alle sei di mattino alla Malpensa). E quale posto migliore se non il confine estremo del mondo conosciuto dagli antichi, l’ ”isola che non c’è” per eccellenza? Di che sto parlando? Ma della nordica Thule! Quest’isola, in cui i periodi di luce e di buio durano mesi e mesi, circondata da un mare ghiacciato e morto, viene descritta per la prima volta da un certo Pitea di Marsiglia che, circa nel 330 a.C., dice di averla raggiunta navigando per sei giorni dalla Britannia (Greci in Inghilterra 300 anni prima di Cristo… scommetto che non ce li avreste mai visti!). Questo aneddoto ci viene riportato da storici illustri quali Polibio (206 a.C.-124 a.C.) e Strabone (60 a.C.-23 d.C.) come esempio negativo, perché raccontaballe, di avventuriero o “logografo”, come lo definivano i Greci. Questo termine veniva usato per indicare chi si metteva a fare lunghissimi viaggi in terre sconosciute a raccogliere informazioni interessanti sui costumi e le tradizioni degli altri popoli da raccontare, oralmente o per iscritto, a chi non si poteva muovere (ancora non c’era la Lonely Planet, ci si doveva accontentare). Il problema nacque però quando i vari autori cominciarono a comporre i loro diari di viaggio standosene tranquillamente seduti a casa e inventandosi tutto di sana pianta, oppure aggiungendo particolari inesistenti tratti dalle varie leggende locali solo per attirare gente e essere più popolari (un tempo dire di aver visto una popolazione con la testa da cane e il corpo umano valeva all’incirca 500 mi piace, secondo una stima fatta da alcuni storici recentemente). Solo in seguito, nell’antica Grecia, il termine logografo indicherà, con disprezzo, chi componeva orazioni di difesa per altri da recitare in tribunale (una sorta di avvocati, insomma). Ma sul problema dell’attendibilità delle testimonianze tratterrò a parte in seguito, non temete (sì, lo so, sto cominciando a dirlo un po’ troppo spesso ma abbiate fede, c’è tempo per tutto)! Ora, tornando al nostro Pitea di Marsiglia, sembra quanto mai improbabile che effettivamente sia riuscito a raggiungere una terra del genere coi mezzi a disposizione per quell’epoca. Sì, è vero che sono condizioni climatiche che si trovano in paesi come l’Islanda o la Norvegia del nord ma, in sei giorni, con una nave di legno in mezzo al nulla è quantomeno poco credibile. È invece decisamente più probabile che abbia sentito parlare di questi paesi da altri viaggiatori magari proprio in Britannia, da cui dice di essere salpato . Oggi, però, non siamo qui a parlare di quest’individuo in particolare, di cui ignoriamo praticamente tutto, ma di una grande opera letteraria: “Le Incredibili Avventure al di là di Thule” di Antonio Diogene.

 <<Antonio Diogene? E chi cazzo è costui?>> (cit. Don Abbondio)

 Bho. Bho sul serio, non sappiamo nulla di nulla del personaggio se non che aveva una sorella di nome Isidora (i dettagli utili). Si stima però che sia vissuto all’incirca nel I secolo d.C. .

 << E vabbè, di lui non sappiamo nulla ma sorvoliamo. E dell’opera che ci dici? Com’è? Sarà sicuramente un grande capolavoro!>>

 Bho. Bho anche qui, mi dispiace, ma a noi, di questo romanzo gigantesco in 24 libri, non è che rimasto uno scarno riassunto di poche righe composto da Fozio (820 d.C.-893 d.C.), un bibliografo bizantino (che ho scoperto essere pure santo, alla faccia!) che ha scritto varie sintesi di opere del passato, e un paio di frammenti molto inconsistenti. Fine. Tutto qui: come non aver nulla, più o meno. Inoltre il riassunto, di qualche decina di righe, non fa altro che tracciare le linee base di una trama intricata e sicuramente molto nota a tempi senza dare il minimo dettaglio: a Fozio non interessa illuminarci con le meraviglie incontrate dai personaggi in viaggio che, anzi, riteneva, come qualunque scritto frutto della fantasia dell’autore, opera del demonio (un uomo dalla mentalità aperta diremmo oggi).

 <<Vabbè dai, niente autore, niente opera, ma almeno la trama com’è?>>

Mha, a dire il vero, senza il minimo dettaglio, sembra abbastanza anonima. La storia è narrata a turno dai tre protagonisti a un amico in visita nella loro casa a Tiro con la tecnica del flashback. Non starò qua a riassumervi punto per punto quelle poche righe lasciateci da Fozio perché non si può fare la sintesi di una sintesi: in poche parole c’è Dinia, il protagonista, che arriva, dopo mille peripezie, a Thule dove incontra Dercillide, una ragazza di cui si innamorerà, che, giunta lì dopo mille avversità, si trova legata all’isola dove, per malvagio incantesimo di uno stregone egiziano, può vivere solo di notte mentre di giorno lei, insieme al fratello, giacciono come morti (no, una frase più contorta non sono riuscito a trovarla, prego.). Solo nell’ultimo libro riescono a sciogliere l’incantesimo e, in sogno (non chiedetemi perché), a varcare i confini estremi del mondo superando Thule e raggiungendo la Luna dove… non sappiamo cosa vedono. Questa parte, sicuramente molto fantasiosa e piena di dettagli interessanti, viene brutalmente troncata dal nostro mai-così-simpatico Fozio e dalla sua fede. Grazie Fozio, grazie davvero, non dovevi proprio, troppo gentile! Sappiamo però che le cose sono finite bene perché, a parlare, è proprio Dinia, ora sposato con Dercillide. Questa storia capita nelle mani di Antonio Diogene perché, prima di morire, i protagonisti l’hanno trascritta su delle cortecce d’albero ritrovate secoli dopo da un generale di Alessandro Magno durante l’assedio di Tiro nelle loro tombe. Ovviamente tutto ciò non è mai successo (no bambini, i Greci non sono arrivati sulla Luna), si tratta di un falso storico: la tecnica del manoscritto ritrovato è stata in seguito usata da molti autori come ad esempio Rabelais nel “Gargantua e Pantagruele”  e Manzoni nei “Promessi Sposi”.

Ma dunque, perché quest’opera è così importante anche se di lei sappiamo poco o nulla? Perché, come ci dice lo stesso Fozio, questo romanzo è stato uno dei primi ed è servito da modello a tutte le altre opere, antiche e non, che sono state scritte in seguito: ritroviamo non solo schemi narrativi come quello dell’abbandono e del ritrovo presenti in numerosissime opere tra cui ancora una volta il capolavoro di Manzoni, ma anche situazioni tipiche divenute ormai famosissime come la scena dell’amante che si suicida perché pensa che l’amata sia morta quando invece non lo era (Shakespeare nel “Romeo e Giulietta” non si è inventato nulla). Ma come nasce un’opera così complessa e piena di temi? Evoluzione graduale o intuizione geniale? Probabilmente una via di mezzo. Gli unici modelli, da noi conosciuti, che esistevano precedentemente erano il poema epico ( “Odissea” e le “Argonautiche” di Apollonio Rodio (295 a.C.-215 a.C.)) per il racconto avventuroso e le fabulae milesiae, stoirelle di origine popolare, per l’uso della prosa: tutte queste influenze non sono però sufficienti a giustificare un qualcosa di così innovativo, impegnato e perfetto stilisticamente, stando almeno a quel che ci dice Fozio.

E dunque ancora, perché dedicare un intero brano ad un’opera di cui sappiamo così poco? Il capitolo vuole essere un piccolo punto di partenza per il mio progetto di gestione del blog, ma cerco di spiegarmi meglio. Il 29 gennaio il blog compie un mese e, in 30 giorni, sono riuscito ad arrivare dal nulla a 900 visualizzazioni. Ma sono solo numeri, direte voi, non sono quelli che rendono bello o popolare il tuo spazio, possono anche essere casuali le visualizzazioni, non contano nulla. Questo è vero, da un certo punto di vista, però per me tutto ciò significa molto molto di più di quanto voi non possiate immaginare. Quindi, dopo un mese di collaudo di questa pagina, sono pronto a prendermi carico seriamente del tutto e vi prometto che non vi deluderò. Thule, il limite geografico sulla mappa degli antichi, il mio limite interno di timidezza e ritrosia nel gestire questo spazio, è ormai superata: preparatevi a salpare con me! Quindi un ringraziamento dovuto va a tutti voi che state leggendo queste righe e, se pensate che vi abbia rotto le palle continuando a chiedervi opinioni a ciascuno fin’ora, sappiate che questo è solo l’inizio. Volevo dedicare questo brano ai miei genitori che, da 13 anni, mi fanno conoscere il mondo grazie a tanti viaggi che non tutti possono permettersi di fare ma che dovrebbero essere d’obbligo per capire il valore di tutto ciò che è diverso da noi.

So di essere stato eccessivamente sentimentale, scusatemi ancora!

E come non concludere un brano su Thule senza rimandarvi a chi l’ha cantata meglio di me? Colonna sonora per i titoli di coda più che doverosa!

Link pagina Twitter:inutili tweets

Link pagina Google Plus:social network molto utile

La prossima volta cambiamo genere portandoci in un filone “oscuro” della letteratura!    

giovedì 23 gennaio 2014

Chi è il miglior amico dell'uomo? Viaggio popolare nella storia con l'asino!


!!!ATTENZIONE!!!
QUEST'ARTICOLO NON è PIU' RAPPRESENTATIVO DEL BLOG!
TROVATE LA SUA VERSIONE UFFICIALE QUI!!!


Salve a tutti ed eccoci all’appuntamento tanto (???) atteso! Vi siete spaccati il cranio contro la parete per capire quale potesse essere l’animale di cui vi parlerò in questo episodio? No, eh? Leggendo gli indizi alcuni di voi magari hanno pensato che oggi vi volessi parlare del cane, infaticabile amico dell’uomo nelle varie epoche e che, quando eravamo ancora dei cavernicoli nomadi, ci ha servito come compagno di caccia sotto forma dei suoi antenati sciacallo e lupo per poi diventare nostro aiutante quotidiano nelle faccende domestiche (anche se ciò non toglie che io ne abbia comunque una certa paura). E invece no! L’animale più utile alla gente sul piano del lavoro umano non è stato il cavallo viaggiatore (come un mio amico ha ipotizzato), non il bue aratore ma l’asino, infaticabile lavoratore. Ma questo sgraziato animale, brutto a vedersi e dal verso così terribile, è solo un sostitutivo del più pratico e agevole schiavo (oh, quanto sono comodi, sono DANNATAMENTE comodi, non trovate?)? La verità è che dietro alla figura apparentemente semplice di questo mammifero dalle lunghe orecchie si celano simboli arcani ormai dimenticati.

Come avrete capito dall’introduzione, non andrò qui a trattare di nessuna opera letteraria nello specifico, il mio sarà un discorso molto molto più generale che vuole focalizzarsi su una concezione del mondo molto particolare. Il filone da me considerato è quello della cultura popolare da piazza che si oppone al ramo del sapere ufficiale che, in poche parole, è quello che si affronta maggiormente a scuola. Questa corrente “bassa”, se così si può dire, attraversa i millenni portandosi dietro caratteri fissi e tendenzialmente immutati nel corso del tempo e comuni a culture diversissime tra di loro, dall’antica Grecia al Giappone feudale. Il discorso, complesso e non di immediata comprensione, ve lo spiego in termini molto semplici così che tutti possiate comprenderlo con facilità nonostante le sue dimensioni e la complessità: vi dico soltanto che, sebbene lo stia approfondendo da più di un anno e l’abbia sviluppato per la tesina, sto continuando a studiarlo imparando cose sempre nuove come quella di cui vi parlo oggi. Comunque, appunto, voi non preoccupatevi e scusate, anzi, se ripeto gli stessi concetti più e più volte.

Ciò che vi racconto è tratto dal doppio volume “Sesso e Mito” (1962) di Francesco Saba Sardi (1922-2012) e soprattutto dall’opera monumentale di Michail Bachtin (1895-1975) “L’Opera di Rabelais e la Cultura Popolare” (1965) attualmente in fase di lettura. A ciò va aggiunta qualche considerazione personale ma non perdiamo altro tempo e passiamo ad analizzare il tutto!

Come già accennato la cultura popolare ha origini millenarie e coinvolge temi quali, ad esempio, la fertilità, la vita e la morte intesa come rinascita. Tutti questi concetti vengono portati alla luce tramite una serie di immagini apparentemente molto semplici (ai limiti della banalità per noi abituati a ragionamenti molto più complessi) ma che nascondono grandi messaggi. Per capirli dobbiamo però abbandonare la mentalità da persone del 2014 e, con qualche vestito in meno e pelo in più, immedesimarci nell’uomo primitivo, privo di televisione, computer e di quasi qualunque utensile. L’uomo antico non sa nulla, può solo intuire, non ha conoscenze scientifiche di alcun tipo (in questo ci assomigliamo, non è vero matematica?). Ad esempio intuisce che, mettendo quella cosa strana e lunga in un buco che ha quell’altro essere a lui simile, si fanno dei bambini che poi diventeranno adulti. Spremendosi le meningi riesce a concepire quindi che a dar origine a tutto ciò è lo sperma (per il riconoscere il ruolo della donna ci vorrà tempo, nemmeno Aristotele c’era arrivato), il seme, che uscendo dal pene entra nel ventre della donna e qui viene “sepolto”. Quindi la pancia, sotto questo aspetto, assomiglia alla terra, al suolo, che accoglie il seme per generare la pianta. Tutte queste immagini come i genitali, il ventre piuttosto che il suolo si trovano in basso: in basso nel nostro corpo, in basso sulla terra. E, come è facilmente intuibile, dalla parte opposta troveremo l’alto. Ripeto, è un modo di pensare molto molto ma MOLTO semplice, cercate di seguirlo senza farvi troppi problemi e i vostri neuroni rimarranno illesi, ancora impacchettati nel cellophane (sì si scrive così, io pensavo che si scrivesse celophan, non so voi!) come li avete trovati alla nascita.

<<E in alto cosa c’è, voi che avete la vista buona e il cervello fino?>> Nel corpo la testa, nel mondo il cielo, la casa degli dei e… il paradiso (no vi giuro lo vedo da qua… no, nessun ufo o scia chimica, mi spiace…)! E quindi “di sotto” troveremo l’inferno e dunque la morte (e Andreotti che ci aspetta). Quindi, ricapitolando: vita su, morte giù; paradiso su, inferno giù; testa su, ventre e genitali giù. Quindi dovete pensare ora che tutti gli elementi alti sono legati tra di loro così come quelli bassi. Però appunto la vita (della pianta, del bambino) viene da un posto in cui invece si trova la morte (il terreno che ospita i cadaveri, il ventre), come mai? Questo perché la morte, in questo sistema di immagini, non è mai fine a sé stessa ma è indissolubilmente legata al concetto di rinascita, di rinnovamento. << Eh, vabbè Riccardo, maccheccentra con l’asino?>>. Seguitemi nel ragionamento e presto vi sarà chiaro come questo animale sia un vero, grande simbolo di “morte-rinascita”.

 Qual’ è una delle grandi doti dell’animale? Non tanto la dentatura perfetta o il verso armonioso quanto un grande, grandissimo pene (non vedevate l’ora di rileggere questa parola, dite la verità!). E non vi devo certo stare a spiegare come questo simboleggi fertilità. E qual’ è un’ altra grande caratteristica dell’animale? Se lo guardiamo nemmeno troppo attentamente noteremo un ventre abbastanza prominente (pancia=terreno=morte=rinascita) in cui Bear Grylls dormirebbe senza problemi con tutta la famiglia. E di cosa va riempita questa pancia se non di giovani e tenere pianticelle pronte a sacrificarsi tra le fauci della bestia (vegani insensibili, anche le piante hanno dei sentimenti, non ve ne frega nulla di loro!)? Quindi è la vita che si estingue ma… in che cosa si tramuta? Semplice, ESCREMENTI (ah, la poesia…)! <<Ma che schifo- direte voi -non sai che parlare di ste cose terribili! Ma non ti vergogni?>> Invece pensate, bambini, cosa ci fanno i contadini col letame? Ci coltivano i campi per far maturare i semi generando nuova vita dall’ apparente morte del terreno e delle feci (<<Wiiiii!!!>>)! E, con tutto il cibo che l’asino ingurgita, ma avete idea di quanta merda produca? Una vera manna dal cielo per l’uomo dell’era dei contadini che, suo malgrado, non aveva ancora inventato i fertilizzanti e altre sostanze chimiche per poterci avvelenare (Gomblotto! Gomblotto!). Inoltre l’animale è un infaticabile lavoratore, bastava riempirlo di botte: dice il più simpatico dei proverbi medievali “Cos’hanno in comune l’asino, l’albero di noce e il contadino? Bisogna picchiarli perché diano qualche frutto”. Così l’asino è allo stesso tempo martire degli animalisti e fonte di guadagno e sostentamento quando ancora non esistevano tutte le comodità di oggi ma anche simbolo di tutto ciò che è abbassante: genitali,  ventre e escrementi in gran quantità. E così si entra in un gioco di immagini e rimandi che si fa strada lungo la storia dell’uomo nei secoli. Ad esempio, nel medioevo, il tamburo, fatto con la pelle d’asino conciata e tirata, veniva suonato ai matrimoni con la mazza, chiaro simbolo fallico ben evidente nel nome in francese, come rito di fertilità e allo stesso modo il tamburello, dal suono così allegro, era simbolo dell’amante cornificatore.

 Nell’antica Grecia Dioniso (Bacco per i romani) era il dio dell’ebbrezza, del vino e dell’incontrollabilità delle passioni: le menadi, sue sacerdotesse, si dedicavano a culti orgiastici, detti misteri, in suo onore in cui come pazze perdevano completamente il controllo di sé (come ci racconta bene Euripide (485 a.C.-406 a.C.) nelle sue “Baccanti” (405 a.C.)). Ma tra le schiere del dio che l’accompagnavano festose, oltre a satiri danzanti e menadi festeggianti, si trovava anche una figura molto particolare: Sileno. Vecchio, grasso e effeminato (si vestiva di giallo come le donne), simbolo del passato che si rinnova in futuro, è un satiro raffigurato sul dorso di un mulo. E così ci viene mostrato da Piero di Cosimo (1461 d.C.-1522 d.C.) nel suo “Le disavventure di Sileno” (1505) e pure Lorenzo De’ Medici (1449 d.C.-1492 d.C.), nella celebre “Canzone di Bacco” (1490), ne dà una descrizione simile (Quant’e bella giovinezza/che si fugge tuttavia!/Chi vuol esser lieto, sia: del doman non c’è certezza su, dai che la conoscete anche voi!). Inoltre anticamente le processioni festose di vita in onore di Bacco presentavano oggetti utilizzati anche nei riti funebri in cui, come noi ormai sappiamo, la morte è sinonimo di rinascita.

Gli asini sono anche i veri protagonisti di due grandi romanzi antichi: del greco “L’Asino d’Oro” di Luciano di Samosata (120 d.C.-190 d.C.) e del latino “Le Metamorfosi” di Apuleio (125 d.C-170 d.C.). Le due opere hanno un rapporto molto particolare tra di loro: infatti lo scritto di Luciano ha lo stesso contenuto riassunto di quello di Apuleio ma in lingua greca. Però adesso non ci interessa parlare dei due romanzi in sé quanto del protagonista, Lucio, che si trasforma in un asino e, per tutta l’avventura, ne passa di cotte e di crude nel tentativo di tornare ad essere umano. Qua l’asino non è solo un semplice componente della trama: è un elemento comico che gode di vita propria, carico di tutti i significati visti e che di certo i due autori avevano a mente. Tornerò su questo argomento in futuro comunque.

L’asino come essere buffo, sgraziato e poco sveglio emerge anche in altre occasioni. Si pensava, ad esempio, che uno dei fondatori della scuola stoica (non chiedetemi chi fosse, ogni volta che leggo quest’episodio il tipo ha un nome diverso, illuminatemi voi!), vedendo l’animale mangiare dei fichi e bere vino, sia letteralmente morto dal ridere (ancora non c’era la televisione, cerchiamo di capirlo…).

 Anche tra gli uomini colti del medioevo correva una celebre storiella: quella dell’asino di Buridano. Questa povera bestia, posta tra due mangiatoie piene, non sapendo a quale attingere per prima, morì di fame corrosa dal dubbio.

Ma la figura di questa buffa bestia affiora spesso anche nella letteratura successiva: Sancho Panza, coprotagonista del “Don Quishotte” di Cervantes (1547 d.C.-1616 d.C.), vera e propria personificazione della cultura popolare, ha praticamente come unico bene durante il viaggio quest’ animale. Anche in questo caso parlerò di questo lavoro, uno dei più complessi nella letteratura mondiale, un’altra volta.

Ma l’importanza di questo animale era nota non solo agli uomini di lettere ma anche al popolo che l’ha celebrato con riti vari che si sono succeduti e trasformati nei secoli. Nel medioevo venivano messe in atto nei periodi di festa le così dette “messe dell’asino”: veniva celebrata dal vescovo o dal prete un’intera liturgia in cui le parole erano sostituite col verso dell’animale imitato da tutti i presenti, chierici compresi!

Quindi, ricapitolando, l’asino è un animale che da noi viene spesso sottostimato perché non riusciamo a coglierne l’importanza che aveva invece un tempo, così abituati alle nostre comodità. Esso racchiudeva le speranze delle persone che sopravvivevano grazie al suo lavoro ed era così fondamentale per loro da incarnare una serie di significati così complessi e arcaici da venir tramandati per secoli e secoli.

E dunque eccoci arrivati alla fine. Non sono entrato troppo nello specifico ma ho cercato di darvi un quadro molto molto generale. Tutti i temi lasciati da me in sospeso saranno comunque sicuramente ripresi e trattati a parte in seguito! Vi voglio ringraziare tanto tantissimo per tutte le visualizzazioni che tra poco arriveranno addirittura a 800! Se c’è qualcosa che non capite, di cui non siete sicuri o che magri vi è sfuggito ma anche un vostro parere o qualunque cosa vi venga in mente non avete che da scriverla qui! Inoltre da poco il blog è anche social con la sua pagina su Google plus e twitter! Dedico infine questo brano all’asino di Buridano che mi fa molta tenerezza!

E voi che fate ancora lì? Cominciate a fare le valigie che col prossimo articolo Letterarte vi porta in viaggio!

 Link pagina twitter:Qui
Link pagina Google Plus:Qua

sabato 18 gennaio 2014

Risate a corte: quando l'autore diventa cattivo.

!!ATTENZIONE!!
QUEST'ARTICOLO NON è 
RAPPRESENTATIVO DEL BLOG
LO TROVATE RISCRITTO E MIGLIORATO
QUI!!!



<<Un carissimo saluto a tutti quanti! Oggi vi parlerò di uno delle opere più particolari dell’età imperiale romana e che, spesso, non viene affrontata nelle scuole perché troppo particolare o per mancanza di tempo. Ma non perdiamoci in chiacchere inutili e iniziamo subito!

Roma, 41 d.C. .Con la morte dell’imperatore Caligola (12 d.C.-41 d.C.), famoso per la sua folle crudeltà (dopo aver fatto erigere un gigantesco ponte che collegava due tratti di costa fece annegare tutti i civili che facevano parte del pubblico dell’inaugurazione. Perché? Così, perché gli andava, tanto lui era l’imperatore) e per questo ucciso prontamente con una congiura che ponesse fine a un governo fondato sul terrore, ecco salire al potere suo zio Claudio (10 a.C.-54 d.C.). Seppur non giovanissimo per l’epoca, decise di tenere le redini di un impero ormai vastissimo e molto eterogeneo varcando le porte del palazzo imperiale, pieno di tranelli e trabocchetti orditi da un folto stuolo di adulatori, spie, concubine e altre figure dalla dubbia morale. E Claudio era proprio l’uomo che faceva per loro. Egli era molto ingenuo e anche, almeno così pare, leggermente ritardato, per cui tutti si approfittavano di lui. L’esempio più famoso? Possibile che abbiate già sentito parlare della sua prima moglie, Messalina, famosa per la sua insaziabile ninfomania (voglia di cazzo): sono in molti a descrivercela come una predatrice affamata, ma il più famoso è sicuramente Giovenale (60 d.C.-127 d.C. circa) nella celebre satira sesta contro le donne: qui Messalina la notte, camuffatasi grazie a una parrucca ,si reca in un bordello a Roma tutte le sere e fa una gara con le colleghe: avrebbe vinto chi sarebbe riuscita a far venire più uomini nella stessa sera. Un’esagerazione dell’autore? Sicuramente, ma gli aneddoti non si fermano certo qua. Pare infatti che l’imperatore Claudio, completamente assoggettato ai capricci della consorte, le abbia procurato un giovane schiavo ballerino (ma non sarà stata questa la dote da lei notata con molta probabilità) affinché ne potesse disporre come voleva. Ma tutto ha un limite, e Claudio iniziò a intuire di essere utilizzato (meglio tardi che mai). Così nel 48 d.C., quando gli comunicarono a cena che la moglie era morta avvelenata, ovviamente per ordine suo anche se non palese, non se ne curò più di tanto e continuò ad assaporare il suo vino come se nulla fosse: e come dargli torto, con una moglie così troia? Però questo fu solo uno dei numerosissimi omicidi politici e delle nefandezze che commise nell’ambito della corte sfruttando il suo potere illimitato. Tanti i motivi per odiarlo, numerosissime le persone che ce l’avevano a morte con lui e tra questi vi era una figura che negli anni a venire sarebbe stata potentissima all’interno della corte. Un uomo non solo considerato puro e integerrimo, sempre leale alla sua dottrina filosofica, lo stoicismo, ma anche un abilissimo retore e autore di numerosi trattati: era Seneca, l’imperturbabile.

Ma quando Claudio salì al potere non si trovava a Roma. Dal 39 d.C. infatti era stato esiliato da Caligola (e gli è andata pure bene che, se per lui non avesse interceduto una “amica” dell’imperatore, sarebbe stato condannato a morte senza troppi giri di parole). Il capo d’accusa? Aveva difeso in modo fin troppo brillante una causa in tribunale e pertanto era da ritenersi un uomo pericoloso. E poi insomma, era completamente fuori di testa quell’imperatore, ci si poteva aspettare di tutto da lui! In seguito con la morte del suo persecutore nel 41 sperava finalmente di poter tornare in patria. Ma Claudio, invece, rimase insensibile ad ogni supplica del filosofo. Molte le lettere che Seneca aveva cercato di fargli arrivare ma nulla si muoveva. E come sarebbe potuto cambiare qualcosa finché Polibio, un liberto agli ordini dell’imperatore, incaricato di vagliare la posta diretta al regnante, le bloccava tutte? Ma Seneca era veramente disperato e fece qualcosa di inaspettato e poco coerente con la sua figura: arrivò addirittura a comporre una “consolazione”, ovvero un testo consolatorio per un lutto, a Polibio per la morte del fratello come pretesto per supplicarlo con leccaculate varie, senza un briciolo di dignità, di far arrivare le sue lettere all’imperatore. Uno dei capisaldi infatti della dottrina stoica era la così detta “atarassia”, ovvero l’imperturbabilità di fronte a ogni turbamento dell’anima o gioia terrena. Diciamo pure che, sotto questo punto di vista, Seneca predicava bene ma razzolava male, molto male: scrive a favore dell’abolizione della schiavitù al fratello ma non per questo si priva degli schiavetti personali che lo aiutino in OGNI faccenda della casa (che questo fosse o meno il caso del filosofo, resta il fatto che secondo il diritto chi era sottomesso al padrone doveva servirlo anche dal punto di vista sessuale e i giovinetti, in quel periodo, erano di gran voga. Seneca birbone…), ci dice che non bisogna farsi tentare da beni materiali di alcun tipo ma aveva molte ville a cui teneva molto e, infine, ci vuol far credere che la morte sia da affrontare con serenità ma, quando fu ucciso Afranio Burro, collega precettore di Nerone, capendo l’andazzo delle cose, si ritirò prontamente a vita privata: anche lui ci teneva alla pelle in un modo o nell’altro, insomma! Alla fine riuscì finalmente a tornare in patria solo nel 50 d.C. per intercessione di Agrippina, seconda moglie di Claudio nonché madre di Nerone, il futuro imperatore. In ogni caso a Seneca decisamente non era andato giù il comportamento del regnante e, quando quattro anni dopo il vecchio Claudio morì, poté finalmente sfogare tutto il suo odio, condiviso da molti, con un’opera sconvolgente per quei tempi e che nessuno si aspetterebbe dal saggio e imperturbabile Seneca:  l’ ”Apokolokyntosis”, ovvero la “Zucchificazione del Divo Claudio”. Ma perché “zucchificazione”?  Il motivo non è a dire il vero ancora chiarissimo e la parola che viene dal greco è molto poco usata ma i critici hanno pensato ci si potesse riferire al fatto che Claudio fosse considerato un vero e proprio zuccone (no, non sto scherzando)!

LA TRAMA IN BREVE BREVISSIMO

Riassumo il tutto in poche, pochissime parole, per non spoilerarvi tutte le bellissime battute e scenette divertenti che abbondano tra le pagine.

 Claudio muore “emettendo” l’anima al cesso (la diarrea l’ha sempre accompagnato fedele per tutta la sua vita ma potrebbe anche essere stato avvelenato) e questa ascende all’Olimpo come tutti gli spiriti degli ex imperatori con l’intento di diventare una divinità. Lì fanno pure fatica a capire chi sia perché, oltre ad essere brutto gobbo e zoppicante, non sa nemmeno parlare bene e continua balbettare. Sarà il divino Augusto a riconoscerlo e, con disprezzo, a mandarlo nell’Ade (il nostro inferno) dove è condannato a giocare a dadi con un bussolotto bucato per l’eternità perché nessuno gli vuole stare vicino.

FINE DELLA BREVE BREVISSIMA TRAMA

  Sì, la trama non è molto complessa, e nemmeno aspettatevi un finale particolare con sorprendenti colpi di scena ma, vi posso assicurare, le molte battute all’interno, raccontate con l’umorismo mordace e caustico di Seneca, fanno veramente spanciare dal ridere. Salta subito all’occhio però la forza con cui il nostro filosofo si scaglia contro la figura dell’imperatore da poco deceduto prendendo in giro qualunque sua abitudine o difetto. Si tratta infatti di un genere molto particolare: la satira menippea.

La satira, come ci dice Quintiliano (35 d.C.-90 d.C.) nella sua “Formazione dell’Oratore”, è “un genere tutto latino” che affonda le sue radici in Lucilio (180 a.C.-102 a.C.), maestro di uno dei più arguti scrittori del mondo latino: Orazio (65 a.C.-8 a.C.). L’origine della parola satira è per noi ancora un mistero: c’è chi dice che derivi dal satiro, una figura mitologica classica famosa per i suoi scherzi e l’aspetto buffo, oppure che venga da “satura lanx”, ovvero il vassoio pieno di primizie, come simbolo dei diversi temi trattati all’interno della stessa composizione. Ma in ogni caso abbiamo delle caratteristiche sempre ricorrenti: brani di prosa e poesia mischiati, la diversità dei temi trattati e il carattere comico e spietato delle sue composizioni. Però quella di Seneca è particolarmente violenta, molto più di quelle dei predecessori, e si dirige contro una figura importantissima: infatti merita solo per sé l’appellativo di “menippea”.

Questa prende il nome da Menippo di Gadara (310 a.C-250 a.C.), un filosofo appartenente alla scuola cinica che insultava e prendeva in giro tutti in maniera molto violenta e caustica, sostanzialmente fottendosene di quello che gli altri potessero pensare di lui (“solo dio mi può giudicare, cioè…”). Addirittura il fondatore di questa scuola cinica, Diogene di Sinope (412 a.C.- 323 a.C.),detto il “Socrate pazzo”, viveva nudo in una botte che si portava sempre in giro e pare arrivasse addirittura a masturbarsi in pubblico per dimostrare il suo menefreghismo e la sua libertà di fronte a tutti. Il personaggio è stato in seguito utilizzato da diversi autori come protagonista di opere satiriche e, in particolare, da Luciano di Samosata (120 d.C.-180 d.C.),autore di cui vi parlerò davvero tantissimo, che tra i suoi capolavori annovera per l’appunto il “Menippo” e il “Dialogo dei Morti” che lo vedono protagonista di numerose scene comiche.

Seneca ha di sicuro preso spunto anche dalle “fabulae milesiae”, una serie di racconti di origini popolari di cui però ormai è troppo tardi per occuparsene qui ma che di sicuro riprenderò tra qualche numero per parlarvi di un altro argomento.

E quindi, anche per oggi abbiamo finito! <<Ma come? Di già? Perché così poco? Cioè, non hai detto quasi nulla!>> Effettivamente mi rendo conto che questo pezzo è un po’ più snello degli altri ma è anche vero che come genere è molto molto immediato e va letto per essere apprezzato appieno. Poi i temi sì, sono diversi e vari, ma tutti legati alla figura di Claudio, nulla di filosofico o complesso come le altre volte. Anche di Seneca, non è che riguardo a  questo argomento ci sia da dire molto altro, e la vita del personaggio richiederebbe molto più tempo e cura.

Quindi, vi consiglio caldamente di leggervi questo meraviglioso libro perché risulterà essere un acquisto particolarmente valido. Vi posso rimandare al momento solo all’edizione Mondadori perché è l’unica che onestamente conosco ma non sono sicuro che ce ne siano altre facilmente reperibili come questa. In ogni caso questa presenta un’ottima traduzione, moltissime note esplicative e una ricca introduzione che per motivi di tempo io non ho avuto modo di leggere ma che sicuramente chiarirà le idee anche ai meno pratici di voi. Il prezzo dovrebbe essere più che accessibile e non superare i 12 euro trattandosi della collana “Oscar” ma con sicurezza non vi so dire trattandosi di un regalo.

Poi ovviamente non posso non ringraziarvi tutti quanti per le visualizzazioni che, come potete notare, hanno superato il bordo del 500 in meno di un mese! È vero, non contano nulla di per sé, ma per me questo è già un grandissimo risultato che non mi sarei mai aspettato sinceramente. Mi raccomando: commentate, condividete e soprattutto leggete! Dedico questo pezzo alla mia professoressa di greco e latino che, vedendo questo volumetto appoggiato sul banco, mi chiese chi me lo facesse fare di leggermi certe cose.

Il prossimo pezzo non sarà incentrato su un autore o su un opera ma su un tema che, possiamo dire, attraversa le epoche. Un indizio? È un animale!>>

sabato 11 gennaio 2014

Collana i "merdalavori", ep.I: l' "Anti-Justine" di Restif de la Bretonne


!!ATTENZIONE!!
QUEST?ARTICOLO NON E' PIU' VALIDO E RAPPRESENTATIVO DEL BLOG!
POTETE TROVARE LA VERSIONE AGGIORNATA, RIVEDUTA E CORRETTA
QUI!!

<<Inizialmente mi ero riproposto di scrivere dell’ “Anti-Justine”(1798) di Restif De La Bretonne (1734-1806) solo dopo aver dato l’esame martedì. Ma qualche sera fa, sotto una calda doccia meditativa post karate, ho cominciato a pensare a come mettere giù il pezzo e al libro letto quest’estate. Al che mi è saltata la scintilla d’ira funesta. I libri che compro di solito non sono mai scelti a caso: so di cosa parleranno più o meno o, quantomeno, già conosco l’autore anche se non ho mai letto nulla di suo. Poche le volte in cui mi sono lanciato nel vuoto non sapendo nulla. Raramente quindi mi capita di imbattermi in veri obbrobri, come questo, che non riesco nemmeno a finire. E, per rientrare nella categoria, bisogna non solo che sia scritto male, ma anche che non mi trasmetta o dica nulla e che i temi trattati siano praticamente inesistenti. E così è stato per questo libro. Il mio fine parere critico sull’opera?

UNAMMERDA!!!

Partiamo dalla complicatissima trama: c’è un tipo dalla sfilza di nomi impronunciabili che si scopa qualunque essere di sesso anche ignoto che passi dalle sue parti. E quando dico qualunque, intendo veramente QUALUNQUE! Fine. Cioè veramente questo nobile francese, fin da bambino, salta addosso alle sorelle, alla madre e a tutto ciò che ha un buco: più che una famiglia sembra un bordello (e non sto scherzando)! Prendiamo la “Justine” della volta scorsa: trama poverissima (va di qua, stuprata, si sposta di là, stuprata, si risposta da un’altra parte e così via) ma c’è uno schema generale su cui poi incastrare le scene di sesso. Qui no. No assolutamente. I fatti che si susseguono non sono nient’altro che un susseguirsi  quasi convulso di scopate su scopate a cazzo (letteralmente). Non mi credete? Pensate siano esagerazioni? Allora vi riporto il titolo di qualche capitolo così, giusto per farvi un’idea! E subito incontriamo “Il Bambino che Già Rizza”, titolo che ci lascia quantomeno perplessi e poi, capitolo terzo “La Madre Fottuta”, in cui si inizia a intuire l’andazzo dell’opera per passare al dodicesimo  “Il Più Delizioso Degli Incesti”, e chiudiamo questa magnifica raccolta in bellezza con: “Consigli di un Padre Mentre Sta Chiavando la Figlia”. Oh, ma che titoli profondi e ricchi di struggente significato! Inoltre, magari (e dico magari eh, senza troppe pretese), un qualche sprovveduto lettore vorrebbe anche cercare di capire chi sono i personaggi o anche solo intuire il loro grado di parentela, tipo, ma giusto così per dire,  ma no, non chiamiamo in modo normale questi nobili francesi, sarebbe fin troppo semplice, diamogli invece mille mila doppi nomi che  mutano ogni volta che si sposano, così uno non capisce nemmeno da che parte è girato. E le cose sono difficili non perché siamo noi a essere scemi, per carità, ma, per stessa ammissione del traduttore, in una delle note, ci vien detto che non solo i nomi sono ininfluenti in un’opera del genere, ma che lo stesso Restif sbaglia in più punti: nemmeno degli errori di stampa, ecchecazzo! Nemmeno lui sapeva cosa stava scrivendo! Solo a parlarne mi sento bollire il sangue! Ma parliamo della cosa principale: la visione della sessualità per il nostro caro Restif che, a mio parere, è giusto un pochino confusa. Passiamo quindi a:

La Sessualità Secondo Restif De La Bretonne

·       Gli organi sessuali maschili. Il mondo, si sa, è bello perché vario. Ma non tutti la pensano così. Secondo il nostro autore infatti esistono dei tipi ben precisi di peni e questi si ripetono all’infinito, come se fossero fatti in fabbrica o avessero un carattere predeterminato. Abbiamo: peni piccoli mal funzionanti, peni grandi che fanno il loro mestiere, peni giganti che sono troppo abbondanti per entrare in qualunque orifizio e peni giganti che invece si incastrano alla perfezione. Ora. Quando? Quando? QUANDO, CAZZO?? Non funziona così, mi dispiace Restif, ma ce ne possono essere di tutte le taglie e misure, funzionanti e non, e, per fortuna, ci sono anche delle sane vie di mezzo, gli estremi sono contemplati ma qua sono ingigantiti. Giusto qualche sporadica eccezione la troviamo tra le pagine, ma per il resto le categorie sono queste: ma si può?

·       Sperma. Questo termine, ancora tabù per molti, nell’opera non è solamente del banalissimo liquido seminale che serve a sfornare bambini, ma un abbondante condimento (e sappiamo bene di che pasto), come che ne so, l’olio o l’aceto, se non addirittura una zuppa tipica dei paesi nordici, di quelle belle calde da servire nelle gelate serate invernali. Anche qui: esagero? Direi di no, se una delle protagoniste (credo, almeno) tutte le mattine va dal promesso sposo a farsi una scorpacciata di bianco liquame per colazione. D’altra parte, come soddisfarlo altrimenti? È talmente iperdotato che la spaccherebbe a metà! Ma per favore, su dai!

·       La quantità e la frequenza. Come tutti noi ometti sappiamo ci sono dei tempi di recupero tra un’ eiaculazione e l’altra e non possiamo pretendere che, dopo averci dato dentro 3 volte in un pomeriggio, alla quarta esca una fontana tale da ricoprire una persona intera. Inutile dire che qui no, nulla di tutto questo accade! I tempi di recupero tra un’erezione e l’altra sono ridicolamente inesistenti e il ciclo rigenerativo dello sperma infinito e super veloce: basta aspettare due minuti e i testicoli sono già lì che tirano, come le mammelle delle mucche di primo mattino. Io non ti ho conosciuto, caro Restif, ma di sicuro il tuo corpo non funzionava così, no no.

·       La morale. Ciascuno ha i propri limiti, le cose che non farebbe mai nemmeno sotto tortura e che rimangono sepolte in zone inesplorate della nostra mente . Anche i più libertini e sregolati tra di noi a un certo punto, anche se non se ne rendono conto, sono costretti a fermarsi o, quantomeno, a pensare a quello che stanno facendo. Qui no, tutte le azioni meno corrette per la morale sono PAF!, spiattellate sulla pagina, come un toast imburrato che cade per terra, con una velocità assurda e senza il minimo ripensamento da parte dei protagonisti. È una cosa pazzesca come nessuno abbia nemmeno un briciolo di freni inibitori! Ma nemmeno in un cartone animato si ha una leggerezza nel vivere del genere! Mi riferisco soprattutto agli incesti, ma  non solo! Ci sono dei brani, anche abbastanza frequenti, come quello già citato della colazione proteica, in cui la realtà viene appallottolata come un foglio di carta e buttata nel caminetto.

·       La realtà delle cose. La società che viene descritta è completamente sballata. Cioè, non soltanto dal punto di vista prettamente delle pratiche sessuali, di cui ho appena parlato nel punto sopra, ma anche del modo in cui ci si comporta. I mariti, per farvi un esempio molto semplice, non sono scelti dal padre della sposa per la condizione sociale o il reddito ma, ovviamente, e come dargli torto d’altra parte, in base alla grossezza del pene. Ma quando? Dove? E soprattutto: perché? Ma non solo, può capitare pure che un uomo non riesca a soddisfare la moglie per via delle sue dimensioni o perché non gli si rizza. E allora cosa fa? Chiede a un amico o, ancora meglio, a un perfetto sconosciuto, di riempirla al posto suo! E magari si fermasse qui la cosa, no, si deve pure sdraiare accanto alla coppia che scopa! Ma vi pare? E poi come non parlare di chi fa prostituire la moglie solo per vedersela scopata da dei cazzi talmente grossi che finiscono per uccidere la poveretta?


<<Ma come, scusa, queste cose ci sono pure in De Sade eppure lui ti piace, di che ti lamenti che sei pure tu un pervertito?>> potrebbe chiedere qualcuno tra i più simpatici tra voi. Ma il problema qui sta nel fatto che il nostro Restif de la Bretonne non perde tempo a dare una giustificazione della sua filosofia, no, lui è troppo figo, non ne ha bisogno! Mica come quello sfigato di De Sade che si è scritto pagine e pagine di teorie filosofiche scervellandosi per trovare una giustificazione allo stupro e all’omicidio e a tutte le perversioni che abbondano nelle sue opere. Restif scrive quest’obbrobrio per stupire, per far vedere che anche lui non è da meno del suo rivale, che ci si può divertire anche con delle semplici scarpette (infatti il termine “retifismo” viene da lui, ovvero il feticismo per le calzature), per far capire che chiunque può scrivere porcate, mica ci vuole De Sade! Peccato che oltre all’invidia, dietro a quest’opera, non ci sia praticamente nient’altro.


Ah già, ma perché il nome di “Anti-Justine”? Questo titolo, frutto dello sfacciato desiderio di opporsi al marchese rivale, sottintende l’unico abbozzo (aborto) di teoria sessuale: nel sesso bisogna godere entrambi, mica farsi male con mille torture come avviene nella “Jusine”. Tutto qua. Fine. Questo il complicatissimo concetto alla base dell’opera oltretutto non corretto perché non tiene conto della componente perversa degli atti sessuali.


Dunque tiriamo le somme: un’opera nata dall’invidia per il capolavoro del rivale che risulta essere una gran bella merda senza trama, senza motivazioni ma anzi, avulsa da qualunque realtà e normalità di pensiero e azione.


L’edizione in cui ho trovato questo merdalavoro è quella in ogni caso ottima e molto ben curata della ES da €21,00. Manco a dirlo, vi sconsiglio vivamente l’acquisto perché non fa nemmeno sorridere che dici: <<La compro per farmici due risate.>> NO! Fa, solo schifo, nemmeno lontanamente farà comparire una smorfia sul vostro volto se non di disgusto.


Spero che il pezzo vi sia piaciuto! Scusate la volgarità sia per questo brano che per quello scorso ma, visto l’argomento, potevo forse trattenermi? Non vorrei che però questo mio modo di esprimermi lasciasse intendere una leggerezza di contenuti o un modo superficiale di affrontare le cose: solo voglio far capire  tutti in breve quello che ci ho messo mesi e mesi a rielaborare! Inoltre vorrei ricordarvi pure che queste sono miei personali punti di vista, non verità assolute scese in terra. Oltretutto non condanno in toto l'autore ma solo il libro dato che ha scritto anche opere più interessanti e degne. Ovviamente lasciate un commento o scrivetemi per qualunque cosa legata o meno all’argomento trattato, non fatevi scrupoli, sarò felice di seguirvi ciascuno! Dedico questo brano al comitato “Peni Che Non si Riconoscono Nelle Opere Di Restif De La Bretonne” che combatte da diversi anni contro quest’opera e a cui pure il mio aderisce ormai da tempo.


Con il prossimo appuntamento cambiamo radicalmente genere ma non stile! Aspettatevi un’opera stravolgente da un autore che non vi saresti aspettati su un blog come questo! Ciao!>>

lunedì 6 gennaio 2014

La "Justine" di De Sade: un vero modello?

ATTENZIONE!!!!
QUEST'ARTICOLO è VECCHIO E NON PIU' RAPPRESENTATIVO DEL BLOG. NE è USCITA UNA VERSIONE RIVISTA E CORRETTA CHE TROVATE QUI!
BUONA LETTURA

<<Salve, e benvenuti a tutti quanti! Dopo esserci occupati la scorsa volta delle favole, ecco che stavolta ci addentriamo in un argomento decisamente più spinto: il romanzo erotico per eccellenza di tutto il 1700 francese, la “Justine”(1791) del divin marchese De Sade (1740-1818). Ma, prima di iniziare, occorre una piccola precisazione: in questo mio pezzo analizzerò prima la trama e l’opera in sé e, in seguito, il contesto generale di quegli anni, di cui molto brevemente avevo già parlato la scorsa volta, per capire perché il nostro autore abbia voluto scrivere una tale opera in questo periodo. Va da sé che, parlando della trama, io debba per forza accennare al finale che in questo caso è fondamentale per capire alcuni aspetti dell’opera. Non è che vi sia chissà qual intreccio narrativo dietro al romanzo, per carità: sarebbe come guardarsi il film porno della Tommasi per gustarsi la trama, anche se posso capire che ad alcuni(?) possa interessare. Quindi, io ve la metto sotto evidenti segnali rossi che anche il più sfacciatamente ritardato di voi potrà riconoscere: non dite che non vi avevo avvisati! Spero non occorra specificare che questa recensione ha dei contenuti non adatti ai minori e, quindi, cari i miei tredicenni arrapati in overdose ormonale, alla larga! (che è come gettare dello zucchero su un formicaio alla fine)>>

SPOILER!!!

(contenti?)

<<Un bel giorno la precoce e provocante Juliette e la sorella Justine, casta e pura, rispettivamente di 15 e 12 anni, si ritrovano orfane e con pochi soldi lasciati in eredità per poter sopravvivere il tempo necessario per trovare un tetto sotto cui dormire (e già queste potrebbero essere le prime scene di un filmino di serie Z). Juliette, la maialona, tenta di convincere Justine a darsi alla prostituzione con lei in qualche casa di piacere, ma la piccola e vergine eroina è scandalizzata (e vorrei ben vedere, ha 12 anni, cazzo) dalle parole della sorella divoratrice di uccelli (A.K.A. pompinara). Così le due decidono di separarsi: l’una pronta a rinunciare a ogni pudore e concetto di virtù, l’altra invece saldamente attaccata alla fede cattolica e al suo imene. La trama prosegue, senza troppo dilungarsi, sulla vita sfrenata di Juliette (meglio analizzata nel meno famoso romanzo omonimo sempre di De Sade) che, dando la fagiana a cani e porci, non solo diventa ricca, ma pure potente, sta cagna! Un giorno durante un viaggio si ferma in una locanda col marito (quello che ce l’aveva più grosso dei tanti esploratori o in ogni caso il più ricco) e assiste a una triste scena: una giovane tutta sporca e con le vesti stracciate è trascinata da delle guardie che la tengono sotto arresto. Mossa a compassione, Juliette si informa sul motivo per cui la sventurata è in manette: assassinio, furto e incendio rispondono gli agenti. Ma la giovvvine cerca di difendersi da tali accuse: incomincia così il lungo racconto delle disavventure di quella che solo alla fine scopriamo essere Justine (NO, ma va? Ma non mi dire!), sballottata a destra e a sinistra per la Francia passando da un pervertito all’altro: ognuno vuole venire nel modo più doloroso per la nostra vittima (non vi eravate mai chiesti il perché si dicesse “sadismo”?). Tutti se ne approfittano dell’ indole pura di Justine: soprattutto chi all’inizio sembrava gentile e disponibile nei suoi confronti, si rivela poi essere un cinico bastardo a cui piace mettere la sua mazza da elefante indiano nel culo alle ragazze (e non solo) riempendole prima di botte. Le classi sociali incontrate dalla sventurata sono le più svariate e includono ogni ceto sociale, nessuno escluso. Anzi, più si è privilegiati, come nobili e ecclesiastici, più i vizi aumentano e più l’orrore della morte si fa vicino. Basti pensare all’abbazia in cui a un certo punto si trova rinchiusa con altre giovani ragazze che, una volta stuprate dai monaci, vengono poi piano piano uccise, sbrindellate e sepolte nel giardino retrostante il convento (Da questi capitoli già si può notare un primo abbozzo della sua opera più famosa, “Le 120 Gionate di Sodoma”). O ancora: a un ricco falsario che vive in un castelletto isolato da tutto e tutti piace far sperimentare il “gioco dell’impiccato”: pare che il piacere provato un attimo prima di morire sia enormemente più potente del normale orgasmo da scopata (un po’ come in “Trainspotting” quando parlano dell’Eroina: “avete presente un orgasmo? Bhè, moltiplicatelo per mille e non ci sarete nemmeno lontanamente vicini! […] Batte qualunque fottuta iniezione di cazzo!”). Qui la nostra protagonista ha finalmente la possibilità di uccidere il suo persecutore, quando questi decide di provare il gioco su sé stesso, ma sceglie di non farlo e, dopo che lui ha schizzato ettolitri di sperma, taglia la corda da cui si stava facendo pendere: una vera cristiana non desidererebbe mai la morte di una persona; e infatti ne paga poi le conseguenze, e pure belle pesanti!. Justine infatti, qualunque cosa accada, non si concederà mai volontariamente se non in casi eccezionali che comporterebbero altrimenti la sua morte. Ma per colpa di questo suo atteggiamento viene anche accusata in giustamente e si trova in guai sempre più grandi. Solo un colpo di fortuna l’ha fatta riavvicinare alla sorella che riesce a salvarla e a darle tutte le cure di cui ha bisogno la cara ragazza dopo anni e anni di stupri e insidie. Ma le cose non sono destinate a durare a lungo. Un pomeriggio estivo si scatena un temporale e si rinchiudono, Justine e Juliette con tanto di marito, in una casotto in campagna. La nostra eroina, spinta da una sensibilità romantica verso lo scatenarsi delle forze della natura, si affaccia alla finestra per guardare il cielo scuro solcato da lampi accecanti. E così un fulmine, simbolo del potere e della volontà divina, le trapassa letteralmente il corpo carbonizzandola all’istante: la strada della virtù e della castità non sono ben accette nemmeno dal grande Dio onnipotente.>>

FINE SPOILER

(Vi piacerebbe, eh? Così imparate a non leggervi la trama, nell’analisi devo anche parlare del finale!)

<<Come? Un finale così del cazzo? E tutta questa serie infinita di porcate per che roba? Un fulmine e bho, tutto finito? Cioè, tanto vale dire che è stato tutto un sogno e buonanotte al cazzo!>>

<<Come dissi, questo è un romanzo erotico, non un romanzo storico. A De Sade non interessa fare un finale col botto ma trasmettere un certo significato morale: non importa la morale con cui vivi, ma non puoi sempre nasconderti dietro a un finto scudo di purezza, devi saper affrontare una società corrotta dove, come diceva il filosofo inglese Hobbes (1588 d.C-1679 d.C) riprendendo il commediografo latino Plauto (250 a.C-184 a.C), “Homo hominis lupus” ossia “ogni uomo è per l’altro uomo come un lupo” e non ci si può fidare di nessuno. Nemmeno i precetti religiosi originali, non filtrati da ciò che ha aggiunto e rimaneggiato la Chiesa, prevedono un comportamento casto e puro sotto ogni aspetto, basti guardare a quel che succede nella Bibbia: omicidi, incesti e figli venduti come se non vi fosse un domani e soprattutto: tanto tanto tantissimo sesso, tant’è che in quegli anni la sua lettura era sconsigliata alle giovani fanciulle e circolavano varie edizioni col marchio del “parental control”! La sorella Juliette invece, priva di ogni scrupolo morale e ben educata all’arte dei piaceri, vive tranquillamente e felicemente ricca e desiderata. Come è meglio atteggiarsi dunque? Santa ma martire o peccatrice e felice? La risposta non è così immediata: De Sade ha voluto fornirci un modello di vita da seguire o piuttosto un anti-modello? Andiamo a vedere ora questo aspetto anche con gli stronzi che non hanno voluto a tutti i costi leggere un finale così poco impegnativo e pertanto potranno capire solo in parte il perché delle scelte del divin marchese!>>

FINE DEGLI SPOILER

(stavolta sul serio, ci sono solo un paio di riferimenti a qualche riga scritta dall’autore ai lettori ma nulla di più. Se vi disturba questo elemento a sto punto non so che dirvi ,se non: cambiate pagina!)

<<Il volume si apre con una dedica fatta dall’autore (anonimo all’uscita della seconda edizione del romanzo, anche se tutti alla fine sapevano chi fosse) a una sua cara amica, tale Constance, in cui dice di aver voluto sottolineare che, se condite da disavventure e mali, le virtù hanno un valore molto più elevato (grazie al cazzo, aggiungerei io!): “<<Oh, come mi rendono più fiera di amare la Virtù questi episodi del Crimine! Come essa è sublime tra le lacrime! Come la abbelliscono le sventure!>> O Constance! Se pronuncerai queste parole le mie fatiche saranno coronate!”.

Ora, dobbiamo veramente credere al nostro sadico romanziere? D’altra parte, anche nelle ultimissime righe  egli esclama, rivolto ai lettori: “Possiate convincervi, al pari di lei, che la vera felicità si trova solo in seno alla virtù e che se Dio, secondo piani che non sta a noi sondare, permette che essa sia perseguitata sulla terra, è solo per risarcirla in cielo con più dolci ricompense!”>>

<<Ah, ma allora vedi che non è cattivo in fondo? Ci vuole solo dire che bisogna stringere i denti e andare avanti anche nelle situazioni più problematiche! Allora possiamo comunque andare avanti a pregare felici e contente avendo fiducia nel nostro Signore!>>

<<E invece no, il vero messaggio non è nemmeno questo, o almeno non del tutto! <<E, ma allora qual è, scusa?>> Per cercare almeno di comprendere la complessa mentalità della figura più oscura e maledetta del tardo 1700 Francese è direi il caso di addentrarci nell’atmosfera del tempo e nella vita del personaggio!

Donatien-Alphonse-Françoise de Sade, spesso conosciuto come il “divin marchese” o come D.A.F De Sade (no, nessuna parentela con la Hilary Duff, gran battutone) ha scelto il momento peggiore di tutti per essere nobile: la sanguinosa rivoluzione dell’ 89 incombeva infatti all’orizzonte e, come si sa, le bianche parrucche ricciolute tipiche delle classi più elevate del tempo non piacevano troppo ai rivoluzionari incazzosi capeggiati dallo spietato Robespierre (1758-1794) detto l’ “incorruttibile”, morto poi, ironia della sorte, ghigliottinato. Addirittura egli era originario del casato, da parte di madre, di cui faceva parte la Laura famosa per non averla mai data al povero Petrarca. Come è ben immaginabile, fu avverso al movimento rivoluzionario francese nello specifico anche se, pure lui, auspicava uno stravolgimento sotto però un altro ambito: egli condusse una vera e propria crociata non tanto contro i regnanti di Francia, quanto contro il primo  grande imperatore romano: Augusto (63 a.C.-14 d.C.). Questi fu difatti il primo ad accentrare tutti i poteri su sé stesso e ad emanare leggi che, tramite incentivi e proibizioni, volevano ristabilire il “buon costume” presso i cittadini romani. Ma attenzione, egli non si riteneva parte del popolo, come gli altri poveri stronzi: infatti pare organizzò diversi piacevoli festini nel suo palazzo a Roma arrivando addirittura a vestirsi da divinità, cosa intollerabile per il tempo. Era il diritto al piacere che passava dalle mani di tutti, popolo compreso, a quelle del solo monarca, regnante quasi divino che poteva imporre ciò che voleva sui suoi sudditi. E le cose non mutarono per secoli e secoli, arrivando fino in Francia: mentre i nobili si davano al buon tempo giocando a “mettilodentro” tra mille agi e lussurie, il popolo moriva di fame e i ricchi borghesi non vedevano ricompensati i loro sforzi in ambito commerciale (leggendaria la frase d Maria Antonietta “se non hanno pane mangino croissants”). Il tentativo di De Sade non era dunque tanto quello di rivoluzionare la forma politica, quanto di rendere tutti partecipi ai giochi dell’amore e alle lussurie come era prima della venuta dell’imperatore Augusto. E quale arma più adatta per i colti borghesi dell’epoca per colpire la nobiltà se non la pubblicazione di operette erotiche che ridicolizzavano e mettevano in luce l’ estrema lascivia della nobiltà di Versailles e in particolare di Maria Antonietta, simbolo di questo sesso sfrenato affidato ai soli potenti? Tra gli autori di queste opere erotiche dissacranti  e spesso allegoriche troviamo inoltre grandi nomi come Voltaire con l’ ”Odalisca” a lui attribuita e Diderot col suo lavoro giovanile “I Gioielli Indiscreti” in cui le passere raccontano delle loro prodezze sessuali sotto l’influsso di un anello magico in una fantastica corte dei regnanti del Congo. Però nessuno propose una morale anche sessuale alternativa come De Sade: la sua più grande opera filosofica fu “La Filosofia nel Boudoire”. L’opera, racconto di una grande lezione di educazione morale e sessuale fatta a una giovane ragazza, non viene vista come anti-educativa, come invece potrebbe sembrare dalla “Justine”: l’autore crede fermamente in ciò che dice. A questo punto i casi possono essere diversi: o l’autore voleva prendersi gioco dei lettori raccomandando loro una morale fondata su solidi princìpi o voleva pararsi il culo da possibili ritorsioni da parte di chi era più potente di lui.  Secondo il mio modesto parere, quindi non prendetelo per oro colato, De Sade ci voleva brutalmente trollare tutti. Ben note erano le prodezze e i misfatti compiuti dal divin marchese che lo avevano portato a diversi anni di reclusione in varie prigioni, tra cui la Bastiglia, da cui fu trasferito il giorno prima dell’assalto dell’89; fu anzi proprio lui ad aizzare la folla urlando dalle sbarre della prigione che le guardie torturavano i prigionieri. Inoltre, questa di cui sto parlando al momento, è la seconda edizione della “Justine” pubblicata da BUR, ma non esiste solo questa: infatti ce n’è una terza, quella completa e allungata, la “Nuova Justine” (1799) edita da Garzanti, che non inizia né finisce come quella da me letta.

Quindi, tiriamo un po’ le somme: il grande romanzo di De Sade, la “Justine”, mette in luce come un comportamento ostinatamente casto e puro che pecchi di furbizia e “saper vivere” sia da condannarsi sotto ogni aspetto e non rientra nell’ordine naturale delle cose.

Ah già, e il nostro autore, che fine ha fatto? Bhè, odiato da tutti in periodo monarchico non migliorò di certo la sua situazione in seguito con i rivoluzionari con cui non aveva mai avuto buoni rapporti. Dopo essersi dato quindi a forti piaceri con le amanti e, a quanto si dice, con la sorella, e anche per questo incarcerato (non era colpa sua se si divertiva a frustare e avvelenare le giovani ragazzine, povero) finì i suoi giorni obeso per il poco movimento fatto in prigione e bistrattato sostanzialmente dai più: a quanto pare la morale espressa nel suo romanzo non sempre funziona!

Su De Sade è già stato scritto parecchio da persone decisamente più colte di me: abbiamo una parte a lui dedicata nel celebre saggio di Mario Praz “La Carne, la Morte e il Diavolo nella Letteratura Romantica” (edizione BUR dal prezzo ignoto trattandosi di un regalo) che leggerò a breve, diversi scritti di Apollinaire e di Bataille su cui ancora non sono riuscito a mettere le mani, una raccolta per la Longanesi a cura di Elémire Zolla che possiedo ma ancora non ho letto (il prezzo non lo so, era in un negozio di libri usati super scontato) e, infine, praticamente tutto ciò che vi ho raccontato oggi l’ho tratto dal bellissimo saggio in due volumi “Sesso e Mito” di Francesco Saba Sardi, sempre edito da Longanesi.

La “Justine”, come qualunque opera di De Sade, è consigliabile solo a un pubblico strettamente adulto, che abbia lo stomaco forte e non si scandalizzi di fronte a certi temi Le scene di sesso sono più che abbondanti ma, data la crudezza dei fatti descritti e la loro inverosimiglianza, non provocano un eccessivo eccitamento (quindi niente segoni o sgrillettate). L’edizione BUR viene solo €8,00 mentre quella della Garzanti €13,00, entrambe facilmente reperibili. Il libro in ogni caso è molto scorrevole e quindi: perché no?

Ovviamente non ho esaurito l’argomento “De Sade”, c’è molto altro da dire, però rimando tutto a un altro pezzo! In fondo, posso forse non parlare delle “120 Giornate di Sodoma” o piuttosto della sua influenza sul nostro modo di vivere tutti i giorni?>>


<<Ringrazio ancora una volta chi mi segue, mi da suggerimenti e mi sta vicino nonché tutti voi, lettori fissi o occasionali che leggete queste righe! Ovviamente commentate quando e come vi pare e/o mandatemi un’e-mail numerosissimi!

Questo pezzo lo dedico al buon Aldo che mi ha suggerito l’argomento (un saluto ad Aldo: ciao!) mentre rimedio ora allo scorso capitolo che è nato anche grazie ad Elisa che mi ha proposto l’argomento come “sfida” (un altro saluto ad Elisa: ciao!).


And that’s all folks” ma… posso forse non parlarvi dell’”Anti-Justine” di Restif de la Bretonne che si oppone in modo ben noto al nostro De Sade?   Alla Prossima!>>