sabato 29 marzo 2014

Vita, morte e miracoli di Mary Shelley (1): sesso selvaggio a villa Diodati (ovvero il "Frankenstein")

Salve, e benvenuti a questo nuovo articolo (wiii, la gggioia proprio)! Prima di iniziare due cosine cosette piccine picciò. Innanzitutto potreste notare un cambio di caratteri (no , non sono schizzofrenico): questo perchè sto usando un nuovo strumento di lavoro diverso da Word (LibreOffice) e faccio ancora un po' fatica ad usarlo e ad adattarmici e, quindi, per un po' potreste vedere qualche variazione (se faccio fatica ad usare un programma di scrittura figuratevi quali possano essere le mie capacità informatiche! Penso che un procione abbia più dimestichezza di me nell'usare anche "campo fiorito"!). Inoltre ho scoperto che presenta comunque qualche difetto parecchio fastidioso: non corregge gli errori di battitura e, vi posso assicurare, io ne faccio diversi perchè o scrivo al buio o digito i tasti troppo in fretta e non mi accorgo di quel che esce sullo schermo (tutte balle, la verità è che sono spesso e volentieri distratto da altro). In ogni caso se ne vedete non è che non sappia scrivere o che non sappia l'italiano (anche se non è detto): non è che magari siete voi che non sapete leggere? Comunque iniziamo con questo articolo che, vi assicuro, si rivelerà molto più "particolare" di quanto non possiate pensare.

Innanzitutto ecchiè Mary Shelley? Non solo si tratta di una delle più grandi scrittrici (non nel senso che era alta e cicciona) del 1800 romantico ma fu, in primo luogo, una vera rivoluzionaria le cui azioni, spesso censurate dai libri di testo, farebbero ancora scandalizzare se solo fossero portate alla luce. Mary Wollstonecraft Godwin (questi i cognomi della madre e del padre mentre Shelley era quello del marito Pierce) nasce a Londra nel 1797. La madre, Mary (1759-1797) pure lei (ah, le cose magnifiche che può fare la fantasia...), era una filosofa e una delle prime femministe della storia del pensiero moderno: morì però una decina di giorni dopo aver messo al mondo sua figlia per delle complicazioni dovute al parto. E così il padre della piccola, William Godwin (1756-1836), pionere del pensiero anarchico, si ritrovò per qualche anno a dover allevare due bambine, Mary e Fanny, figlia di una precedente relazione della defunta moglie. Questo almeno finchè, ad aiutarlo, non arriva una nuova moglie, sua vicina di casa (la scusa che è finito lo zucchero funziona sempre), già madre di Claire, una ragazza un po' ribelle diremmo oggi. Ma la vita continuava tutto sommato tranquilla e, a parte le bravate di Claire (battone si nasce, non si diventa), tutto sembrava andare per il meglio fino al 1814 quando Mary fece la conoscenza di un allievo del padre: Pierce Bysshe Shelley (1792-1822). Questi era un giovane poeta rivoluzionario (pure lui, sì, andava di moda si vede) che, dopo essere stato scacciato dall'università di Oxford per aver sostenuto i suoi ideali atei (cosa poco tollerata ai tempi), era scappatao giovanissimo in Irlanda con sua moglie (sicuramente rivoluzionaria pure lei), da cui aveva avuto due bambini, a cercare di far ribellare la popolazione contro il dominio Inglese (l'isola era praticamente una schiava del fiero impero britannico): qui non solo fallì miseramente nell'impresa di aizzare la gente contro gli oppressori (che vuoi gliene fregasse a dei poveri contadini che vivevano tra pecore e patate?) ma abbondonò pure moglie e figli perchè pare che lei non potesse capire la poesia (allora scuuuusa Pierce, sei mejo tu). E fu così che il giovane ribelle poeta si ritrovò a dicutere di filosofia a casa del suo maestro Godwin: e, si sa, tra una discussione e l'altra, il corpo ha pur bisogno di sfogarsi in qualche modo. E fu così che Mary, diciassettenne desiderosa di provare nuove esperienze (leggi pure maiala), non perse tempo a farsi aprire come un'ostrica ai pranzi di matrimonio e a farsi riempire come un fagiano imbalsamato: infatti, mossa da spirito ribelle, pare che la prima volta che il portone principale le fu sfondato da Pierce si trovassero sulla tomba della madre (il buongusto proprio) per esternare questa voglia di andare contro il sistema e di rompere ogni pregiudizio che li avrebbe seguiti anche negli anni seguenti. E infatti dopo poco tempo scappò via di casa con il fidanzato in un giro di un anno in Europa da cui tornarono per mancanza di fondi e con un bel bambino che stava per nascere: Mary però partorì troppo presto e il neonato morì dopo poco tempo, trauma questo che segnò per sempre la scrittrice (mentre il marito, catafratto di oppio com'era, probabilmente nemmeno se n'era accorgeva).

Ma in quel periodo non erano gli unici personaggi a far sentir parlare di sè: il vero protagonista di ogni dibattito e scandalo a sfondo sessuale era l'eccentrico ed esuberante Lord George Byron (di cui ora tracciamo solo i tratti più generali: si merita troppo un capitolo a parte!). Anche lui, in compagnia del suo timido e introverso (e anche molto gay) medico di fiducia John Polidori, si sarebbe avventurato, l'anno successivo, in un travagliato viaggio attraverso l'Europa per comporre un diario di viaggio raggiungendo, in Svizzera, una casa sul lago di Ginevra: villa Diodati (il tragitto e la relazione Byron-Polidori nonchè l'opera "Il Vampiro" di quest'ultimo me le tengo buone per un articolo futuro). Ed è qui che arrivarono pure Pierce, Mary e Claire, anche loro in viaggio per il continente alla ricerca di Byron (padre del bambino che la sorellastra della Shelley aspettava e che lui non aveva poi così tanta voglia di riconoscere) dopo vari imprevisti e situazioni scabrose: pare infatti che Pierce non disdegnasse la presenza della sorellastra della moglie nello stesso letto (d'altra parte tre è meglio di due e i lettoni, si sa, rimangono sempre un po' freddi ai lati se non sono belli pieni) tant'è che, più tardi, quando i tre approdarono a Napoli, nei registri dell'anagrafe compare un bambino che porta il cognome Shelley e, sicuramente, a quel tempo non poteva essere di Mary. In ogni caso non perdiamoci in dettagli scabrosi e torniamo a villa Diodati in quello strano 16 giugno del 1816. E proprio di strano dobbiamo parlare: infatti si era scatenato un tempo terribile, una tempesta con pioggia e grandine come non se ne vedeva da tempo e i nostri eccentrici protagonisti erano costretti a starsene chiusi in casa. Poi, si sa, quando sì è costretti a rimanere tra quattro mura per così tanto tempo, anche se si è giovani e ribelli, dopo la terza orgia di fila ci si comincia ad annoiare (e non sono solo mie supposizioni, sia chiaro, che tutto ciò avvenisse). E allora che fare? Fu così che la notte, stanchi di prendere per il culo Polidori, Byron e Pierce ebbero un'idea molto particolare: perchè non creare, ciascuno a turno, un racconto dell'orrore? Chi avrebbe creato la storia più spaventosa avrebbe vinto ( e non ci voleva molto se Pierce, catafrattissimo, era scappato via urlando dalla sala la sera prima quando si era citata, in modo molto casuale, una donna che aveva gli occhi al posto dei capezzoli. No, ancora non erano arrivati i giochi di Saw, se no altro che organi invertiti...).

Alla fine, quella notte, vennero partorite tre opere: il "Vampiro" di Polidori, un frammento di Byron e il celebre "Frankenstein" di Mary Shelley di cui vi parlo oggi: gli altri li rimando a un'altra volta.

Allora, non penso che ci sia bisogno di riassumervi troppo il "Frankenstein", è abbastanza nota come trama: un giovane studente di medicina resuscita un morto che lo insegue dappertutto uccidendo i suoi cari e rovinandogli la vita. Il romanzo è molto gradevole da leggere, lo trovate in millemila edizioni diverse, non farete fatica nè a cercarlo nè ad affrontarlo: casomai trovaste troppo impegnativa la lettura di un libro in prosa che ha conquistato generazioni di persone e che palra di morti e massacri allora guardatevi "Frankenstein Junior" che vi fate pure due risate (se non lo avete mai visto e pensate che sia troppo sbatti giardarvi un film comico tra i più divertenti mai realizzati, ragazzi, veramente, non so che dirvi!). Ora pensavo di concentrarmi di più sulle basi su cui si fonda l'opera e sulle sue conseguenze per poi accennare a una mia personale interpretazione del testo.

Come detto questo mostro (che non si chiama Frankenstein ovviamente, quello è lo studente che lo crea) è un morto resuscitato tramite l'utilizzo di una forte scarica elettrica che avrebbe dovuto riavviare il battito cardiaco e gli impulsi nervosi del cervello (non provateci col vostro, tanto non funziona). Questa teoria è anche nota come galvanizzazione e, il più grande studioso che abbia mai provato a studiare questi fenomeni, fu un certo Erasmus Darwin, nonno di quel Charles che avrebbe formulato più tardi la teoria dell'evoluzione umana. Ed era proprio delle scoperte di questo noto studioso (di Erasmus ovviamente, non si Charles) che Pierce e Byron parlavano la notte prima tra di loro: Mary, attentissima alla conversazione, ne rimase molto colpita ma decise di andare a letto per riposarsi. Durante il sonno fece un incubo terribile: un cadavere si svegliava e la osservava silenzioso (scena uguale identica a un passo del romanzo). E fu proprio questo fatto a gettare le basi per il romanzo dell'orrore più famoso di tutti i tempi!

Ma il tema del sapere scientifico che andava imponendosi in modo dominante si afecva sempre più forte in quegli anni: si entrava infatti nell'era del positivismo, un movimento che sosteneva che, facendola molto breve, tutto poteva essere studiato in modo analitico e scientifico (anche le masse, per dire, ignorate fino ad allora), persino il gradino che divideva la vita dalla morte (tema scabroso e mai affrontato prima). Tutto questo sistema si andava però scontrando con la morale: fin dove era lecito esplorare nuove frontiere del sapere scientifico? Quando si andava eccessivamente in contrasto con le leggi cristiane o naturali stesse? Questo è un problema che ancora oggi ci portiamo dietro, basti pensare alla clonazione, alla ricerca sulle staminali o, molto più semplicemente, all'energia nucleare: un modo per far star bene tutti oppure una possibile arma di distruzione di massa? Mary attribuisce un significato tendenzialmente negativo alla ricerca scientifica: sì, è vero che si possono fare grandi cose come resuscitare un cadavere (provateci anche voi, bambini, basta della colla vinilica e un paio di forbici dalle punte arrotondate!) ma questo è anche contro le antiche leggi che regolano il mondo e, pertanto, il creatore di questo mostro è costretto a soffrire lui stesso per tutta l'umanità: ha peccato di quella che i Greci chiamavano "ubris", ovvero arroganza verso le divinità, che portava ad un'inevitabile punizione (e un tempo ci andavano giù veramente pesanti coi castighi).

Ma la vera dimensione dell'incubo, secondo me, è molto più psicologica che reale. Questa, lo premetto, è una mia teoria che però potrebbe trovare riscontro anche in opere di critici che ne sanno più di me ma che io non conosco (evviva l'ignoranza, siiii!). Secondo me infatti non esiste nessun mostro, è tutto il parto della mente stanca e malata di Frankenstein. Tra i vari elementi che mi portano a proporvi questa mia opinione c'è ad esempio il momento della nascita del mostro: tutto in quel brano è frammentario, senza continuità, come se il protagonista stesse vivendo dentro ad un incubo. Infatti il mostro non si alza subito dopo l'esperimento ma la notte, quando Frankenstein dorme, svegliandolo di soprassalto e facendolo fuggire di casa. Da questo momento in poi il mostro non si mostra mai ma segue il protagonista, in viaggio per la Svizzera, come un'ombra furtiva tra le montagne (un'ombra che secondo me bestemmiava molto in quel periodo). Nessuno lo vede, solo il suo creatore, quasi non fosse reale ma un parto della mente. E la cosa si comincia a fare particolarmente strana soprattutto quando si considera che non stiamo parlando di un piccolo goblin che va in giro ad ammazzare la gente ma di un bestione alto due metri che le strangola: possibile che nessuno l'abbia mai notato? Per questo, secondo me, era lo stesso Frankenstein l'omicida che assassinava i suoi cari perchè, completamente impazzito, si sentiva perseguitato da un senso di colpa terribile per aver tentato di andare contro la natura universale riportando in vita chi, ormai, era morto. Anche le varie situazioni nascondono diversi elementi che mettono in luce questa cosa come, ad esempio, il fatto che per poter eliminare certa gente solo qualcuno di caro e vicino alle vittime come Frankenstein avrebbe potuto conoscere alcuni dettagli altrimenti sconosciuti a un cadavere da poco tornato in vita (ho la netta sensazione che la concordanza dei tempi in questa frase sa andata a farsi fottere ma fa niente). Per quanto riguarda il finale, che non ho intenzione di rivelarvi, è vero che qualcuno vede e parla con il mostro ma, se il libro venisse interpretato come vi dico io, anche quest'ultimo passaggio guadagnerebbe una valenza più simbolica che pratica. Quindi, per riassumere, secondo me non c'è nessun mostro di alcun tipo ma solo uno scienziato fuori di testa che, vinto dai sensi di colpa per essersi azzardato in un'impresa così ardua, sente di dover portare il peso della colpa dell'uomo che si spinge troppo in là nelle ricerche scientifiche, trascinando, per la loro gioia, con sè amici e famigliari.

Ovviamente un capolavoro come questo merita un'analisi migliore della mia e anche qualche riferimento in più al contesto sociale e culturale del tempo ma, come vedete anche voi, non c'è spazio qui e quindi rimando il tutto a un'altra volta. Anche la vita di Mary Shelley non pensate finisca qua! Però per raccontarvela tutta pensavo di adottare sempre questo schema: un pezzo di vita + un'opera di quel periodo. In ogni caso il mio tetso di riferimento per quest'articolo è stato "La Notte di Villa Diodati" a cura di Danilo Arona (e chi cazz è? Ah bho...) per la Nuova Adelphi che, per soli 12€, vi presenta un ottimo saggio introduttivo ricchissimo di informazioni e curisoità, delle biografie molto accurate su tutti i protagonisti di quella notte e le tre opere di Polidori, Byron e della Shelley: che volete ancora di più?

L'articolo per oggi finisce qui, andate in pace! Solo vi ricordo un paio di cose: ieri ho pubblicato un piccolo VLOG che, se avete voglia di leggere, trovate subito dopo questo articolo (oppure per i più pigri tra voi qui). Questo articolo ho fatto una fatica assurda a finirlo in tempo e quindi, se vedete errori o altro, non avete che da dirmelo! Mi scuso se, per questa volta, non ho avuto il tempo nemmeno di mettervi le foto dei nostri protagonisti ma il motivo di questo mio ritardo (non quello mentale, l'altro) è spiegato appunto nel VLOG! Volevo dedicare questo articolo a tutti quelli a cui ho già fatto una testa così sulla vita di Mary Shelley e che sono costretti a sorbirmi tutti i giorni!

La prossima volta invece affronteremo un'opera molto particolare di uno degli umanisti meno considerati di sempre: Poggio Bracciolini!
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venerdì 28 marzo 2014

Comunicazione di Servizio (2): progetti, raduni ringraziamenti e altro!

Benvenuti ancora una volta a questo piccolo angolo VLOG (devo assolutamente trovare un nome migliore a questa rubrica, suggeritemi qualcosa!). Ricordo che quest' angolo, come quello prima, è scritto assolutamente di getto e quindi sarà pieno di errori e ripetizioni ma, allo stesso tempo, mi permette di comunicare meglio con voi! Intanto vi metto qui il link della canzone che sto ascoltando mentre vi scrivo, così, giusto per creare un po' di empatia. Comunque non è che ho tantissime cose da dirvi oggi ma sono tutte molto importanti. Innanzitutto per ringraziarvi del successo anche del secondo articolo sull'omosessualità nel passato. Con tutte quelle visualizzazioni abbiamo rotto insieme un grandissimo traguardo: le 2000 visualizzazioni in meno di 3 mesi! (intanto mi è finita la canzone e vi metto quella dopo link) Non vi nego che ero un po' preoccupato per queste 2000 che speravo di poter raggiungere prima di aprile e... ce l'ho fatta alla grande ( o meglio ce l'ABBIAMO fatta)! Ma dopo questi brevi ringraziamenti (così ve li risparmio per l'articolo di domani) passiamo ad altro. Dovete sapere che non scrivo solo qua per il blog di internet ma l'università mi richiede un impegno in questo senso. Infatti ora sto scrivendo una tesina sul diritto popolare nella letteratura maccheronica rinasciemntale che devo consegnare entro fine mese e mi sta prendendo un po' perchè il tempo è poco e le cose di cui parlare tantissime. Per cui, per ora sono riuscito a conciliare questo mio lavoro con il blog ma non posso escludere che possano esserci dei ritardi per quanto riguarda il blog. Per carità eh, per ora niente, ma non si sa mai (intanto riecco il nuovo brano link) quindi preferisco dirvelo in anticipo. In ogni caso, per farmi sdebitare, finito tutto quanto avevo in mente di pubblicare tutto quanto in formato pdf disponibile per tutti voi, così vedete una parte di me un po' più seria alle prese con un lavoro che però non è così divulgativo (sebbene interessante) come gli articoli che scrivo qui. Comunque, per dire, l'articolo di domani uscirà regolarmente anche se, come per la settimana scorsa, sempre per lo stesso motivo, sono un po' strettino coi tempi (ovvero me ne manca circa metà da scrivere tutto oggi).
Poi, passiamo ad altro. Vi dico già che tra aprile e maggio per due sabati di fila (ma non vorrei sbagliarmi) non uscirà nessun articolo: infatti me ne vado una settimana in viaggio coi miei a Belgrado (in Bosnia) e Sarajevo (Serbia) per staccare un po' da tutto e da tutti. Stesso dicasi per il sabato di Pasqua in cui vado giù in Toscana a trovare mia nonna (anche se solo per sabato, domenica e lunedì) ma tanto immagino saremo tutti presi con agnelli, colombe e patate quindi direi che un bello stacco ce lo possiamo prendere per quel breve periodo (ancora un altra canzone). Poi, altra comunicazione. Quest'anno, se tutto va bene, sarò alla Fiera del Libro di Torino che, come ogni anno, si tiene al Lingotto (vi lascio qui la pagina dell'evento: link fiera del libro). Ovviamente non è che sono lì come ospite ma come voi a fare un giro. Allora, premesso che sono certo solo all' 80% di andare e che ancora non so in che giorno sarò là, mi piacerebbe fare un piccolo raduno con voi. So che non siete ancora tanti, che in molti ancora non conoscono il blog che è agli inizi, e tutte queste belle cose (link altra canzone) ma, tanto che ci siamo, perchè non provarci? L'incontro sarebbe, per dire, alle due davanti a uno stand (quello della Feltrinelli per dire) e da lì si può fare quel che volete, da qualche domanda botta e risposta a qualche suggeriemento e così via. L'idea che mi stuzzicava era un giro molto informale tra i vari stand in cui, molto casualmente, vi parlo di qualche libro, di alcune case editrici, vi do qualche consiglio sulle edizioni ecc... per all'incirca un'oretta scarsa (detto proprio molto approssimativamente) e, se poi ci si trova bene, perchè no, si potrebbe anche estendere per pure più tempo la cosa. Comunque ripeto,, è ancora tutto un progetto in cantiere, nulla di più. Per il resto direi di chiudere qui questo VLOG e, quindi, ci vediamo domani con un nuovo articolo! Spero di non avervi annoiato e grazie ancora di tutto!  

sabato 22 marzo 2014

Piccola Storia dell' Omosessualità (2): gli antichi Romani.

E rieccoci con un nuovo articolo settim-anale (no, non piangete, è tutto finito, sul serio)! L’ultima volta abbiamo affrontato l'omosessualità al tempo dei Greci mentre oggi, come previsto, ci concentreremo sull’esperienza romana ("Homosexuality: A Roman Experience": se solo fossi inglese vedi che titoli fighi!). Tutte le varie precisazioni circa l'oggettività storica dell'articolo, sul fenomeno in sé e sul linguaggio le trovate sparse nel capitolo scorso e, quindi, se non ve le ricordate, tornate a leggervele qui insieme a tutto il resto (anche perché se no non capite una cippa di quello di cui vi parlo). Anche questa volta il testo di riferimento è “Secondo Natura” (BUR, 10.90€) di Eva Cantarella che vi invito a leggere caldamente per avere un quadro più approfondito e preciso dell'argomento che io, per motivi di tempo, spazio e conoscenze sono costretto a riproporvi in maniera semplificata (ma non per questo banale o superficiale). Ma ora iniziamo ad approfondire questo aspetto molto interessante del mondo romano (non pensate che mi sia dimenticato di ringraziarvi, ne parliamo alla fine)!

Innanzitutto bisogno fare una distinzione temporale fondamentale: l’arco di storia che stiamo andando a prendere in considerazione è veramente vastissimo (circa 700 anni. Preoccupati? Pure io prima di iniziare a studiare "Lineamenti di Diritto Romano" all'università. E anche dopo.). Non possiamo quindi pretendere che le cose siano sempre state le stesse, immutate per tutti questi secoli, senza mai cambiare. Occorre dunque una distinzione anche solo formale tra la Roma pre-repubblicana e repubblicana da una parte (fino a circa il 50 a.C) e una imperiale che arriva, seppur mutata nei suoi caratteri, fino al periodo bizantino con Giustiniano (500 d.C. circa): ovviamente prendete i riferimenti temporali con le pinze, i cambiamenti della società non avvengono certo in un giorno (anche se dopo la notte di Capodanno in genere ci si sveglia un po' confusi).

L’omosessualità a Roma non nasce come un culto iniziatico rivolto a degli adolescenti come in Grecia ma, al contrario, come una dimostrazione di virilità e esuberanza sessuale. L’uomo romano è un vero dominatore in tutti gli aspetti della sua vita, da quello bellico a quello sessuale (fuori dal letto nessuna pietà insomma). Così il romano guerriero è dominato (anche se avrebbero preferito dire che erano loro stessi a loro volte a dominare un'ideologia) dall'idea dello stupro fiero: è il forte e sano cittadino della superba Roma con il suo possente, vigoroso e virile cazzo a dispensare gioia e felicità a chi si imbatte sul suo percorso (una sorta di dispenser di cose belle: come un contenitore del sapone liquido che tu schiacci e… no, ok, non continuo che suona malissimo). Quindi, come avrebbe mai potuto sodomizzare un ragazzino libero che poi sarebbe dovuto diventare un guerriero dominatore? Molto meglio sfogarsi su uno schiavo sottomesso (meglio se prigioniero di guerra: questa infatti l’origine della schiavitù secondo il giurista romano Modestino) che capisse chi fosse il padrone o anche con un prostituto, professione questa accettata al contrario del mondo Greco. Però la persona che ricopriva un ruolo passivo doveva essere felice di poter ricevere tale trattamento: non è un caso che una statuetta di pietra (ora conservata nel museo archeologico di Napoli) abbia incisa, sotto l’enorme fallo, la frase “ hic habitat felicitas” (qui sta la felicità). L’importante era sì godere, ma facendo in modo d rendere partecipi anche gli altri che non dovevano mai umiliarsi così tanto. Per questo una pratica come l’irrumatio (il nostro pompino) era molto mal vista e poco sopportata: tanta sottomissione non poteva essere nemmeno lontanamente contemplata, nemmeno da degli schiavi (ma dagli adulteri beccati col salame nel sacco sì)! Infatti tutti a Roma erano fieri della loro nazionalità e si viveva tutti i giorni come in un regime bellico e rigido: gli stessi bambini vengono raffigurati vestiti come dei piccoli uomini e le donne dovevano trasmettere loro il concetto di fierezza romana e di rigore militare. Ma questa visione così rigida sarebbe mutata nell’arco di pochi secoli (che comunque non è poco tempo). Infatti con le continue conquiste belliche i romani cominciarono piano piano a entrare in contatto con altre culture diverse e Roma divenne un crocevia di mercanti e persone di ogni nazione e paese, ciascuno con le proprie radici culturali e usanze. E fu così che, tra una carretto di rape scambiato per una pecora e un ciabattino, avvenne qualcosa di speciale che avrebbe cambiato la storia della società occidentale: Roma incontrò la Grecia e se ne innamorò perdutamente.

Ormai sappiamo bene come la pensassero i Greci sull'omosessualità: i giovani erano preferiti agli uomini maturi (che comunque, se opportunamente conciati, non erano proprio da buttar via) purchè liberi, cosa questa completamente sconosciuta ai Romani così abituati ai loro schiavetti e che mai avrebbero sottomesso un loro simile. Era, per il fiero mondo Romano, qualcosa di assolutamente rivoluzionario e che divise l'opinione pubblica sul rapporto con la Grecia: c'era da una parte chi odiava e rigettava tutto ciò che fosse contro il buon costume degli antichi e che provenisse dall'oriente (questo è il caso di quel Catone che, per la sua  scarsa apertura mentale e per la sua professione, venne definito il "censore": in ogni caso un simpaticone proprio) mentre, dall'altra, c'era qualcuno, come il circolo degli Scipioni (una specie di club culturale, come può essere oggi il Lions o il Rotary, ma gestito da un'unica grande famiglia, gli Scipioni appunto) entusiasta delle nuove abitudini e che, anzi, cercava di assumere qualunque usanza (a volte con risultati grotteschi come ci racconta Orazio) provenisse dall'estero. Fatto sta però che, col passare del tempo, i costumi andarono effettivamente modificandosi sempre di più fino a coincidere con quelli dei Greci: l'amore per i fanciulli liberi, come si vede bene nel "Satyricon" di Petronio (uno dei più grandi romanzi del periodo imperiale) e nelle "Vite degli Imperatori" di Svetonio, divenne comunemente accettato e praticato anche se, a dire il vero, non fu lecito. Esistevano infatti due provvedimenti atti a regolare il costume sessuale dei romani. Innanzitutto si ha notizia certa di un editto del pretore (che è come se il giudice facesse una legge) chiamato "Edictum De Adtemptata Pudicitia" che multava chi seguisse per le vie della città, rivolgesse la parola, distraesse gli accompagnatori o abbordasse giovani donne senza marito o ragazzini liberi. Inoltre pare che esistesse una legge (di cui sappiamo comunque pochissimo), chimata "lex Scatinia (o Scantinia, manco il nome sappiamo bene, mannaggia!)" che proibiva l'unione sessuale tra uomini liberi, qualunque fosse la loro età. Però, è fondamentale notare, ad essere punito era il solo passivo: ricordiamoci infatti che nella Roma dominatrice non era tollerato chi, da libero cittadino, avesse scelto di sottomettersi ad altri volontariamente. Però è anche vero che, nella pratica, questa legge non veniva mai rispettata e tutti continuavano a fare quel cazzo che volevano (letteralmente). Inoltre gli omosessuali passivi trovavano giustificazione del loro essere sottomessi guardando all'esempio dei grandi imperatori: pare infatti che anche Cesare (101 a.C-44 a.C.), il famoso conquistatore,  da giovane, ambasciatore in Bitinia, abbia dato via il culo al re Nicomede IV (vizietto questo che gli era poi rimasto: infatti veniva chiamato "marito di tutte le donne, moglie di tutti gli uomini" perchè, oltre ad avere gusti sessuali alquanto dubbi, pare fosse anche abbastanza libertino. Eh, Cesare buongustaio...) ma, non per questo, era stato un pessimo soldato e stratega, anzi, era riuscito in un'impresa a dir poco epica (ma tornerò sull'argomento un'altra volta)! Quindi, tanto per riassumere un attimo quale fosse, a grandi linee, l'etica sessuale del tempo potremmo dire che l'uomo romano, così desideroso di dimostrarsi conquistatore e dalla sessualità così esuberante, non guardava ai rapporti con un ottica "sessistica" come la nostra (non ragionando in base al sesso della persona e, dunque, se preferiva un uomo o una donna) ma al contrario con una "ruolistica" (e dunque sull'asse attività-passività): insomma, più che vedere chi si stessero scopando erano concentati sulle loro inclinazioni personali del momento. 

Anche a Roma però, come in Grecia, non si può dire che le donne avessero troppe libertà anche se iniziavano ad avere un ruolo maggiore: infatti, anche se non potevano intervenire fisicamente nella vita politica e militare della città, erano però fondamentali nella formazione del fanciullo. Dovevano infatti educare il ragazzo ad essere un fiero ed orgoglioso conquistatore, sempre pronto a dominare chi fosse inferiore a loro, donne comprese: questo lo scotto da pagare per quel poco di autonomia in più riconosciuto alle donne dopo secoli di prigionia forzata nelle case come in Grecia. Dunque, come ben potete immaginare, l'amore lesbico non era nè consentito nè tollerato anche se, tra le classi nobiliari elevate, non è da escludersi qualche sporadico caso di innamoramento. Quelle poche che osavano ribellarsi a questa visione maschilista e si dimostravano gelose dei giovani amanti dei mariti erano per lo più ignorate o anche peggio.

La società di Roma, più passava il tempo, più si andava corrompendo agli occhi di alcuni autori come Giovenale (anche se lui c'è da dire che esagerava molto nel descrivere ciò che lo circondava) che vedeva nella passività sessuale una grande piaga sociale. Fu così che, piano piano, complici alcune filosofie che imponevano un rigoroso modo di vivere come lo stoicismo, sempre più presenti tra i nobili, e il cristianesimo delle origini che cominciava ad avere un certo successo, la morale sessuale cambiò e divenne molto più rigida nei confronti dei rapporti omosessuali e non solo. E così, nell'arco di diversi secoli, le leggi divennero sempre più dure e severe per i soli omosessuali passivi fino ad arrivare alla pena di morte con imperatori come Teodosio (347 d.C.-395 d.C.). Ma l'ultimo colpo di grazia all'omosessualità maschile fu dato da Giustiniano (482 d.C.-565 d.C.) che, nella sua grande raccolta di leggi, condannò alla pena di morte chiunque avesse osato accoppiarsi "contro natura" con qualcuno del suo stesso sesso.

Ed è con questo finale così allegro che si chiude questa piccola storia dell'omosessualità nel mondo Greco e Romano. Mi piacerebbe veramente tanto continuare questa storia dell'omosessualità nel tempo ma... al momento non conosco testi che ne parlino! Quindi se invece voi ne avete da consigliarmene qualcuno non esitate a scrivere un commento o a contattarmi in privato! Tutto questo anche perchè, come vedo, ha riscosso un grandissimo successo (ovviamente proporzionato alle dimensioni attuali del blog) ed è di questo che ci tenevo a parlarvi. Infatti se sono giunto fino a qui è grazie a voi (sì, sto riattaccando con la solita cantilena dei grazie, sappiatelo) e fra poco sto per raggiungere un grande traguardo: le 2000 visualizzazioni che, ora che ho imparato a non farmele più da solo (genius), cominciano ad essere veramente tante. Ed è per questo che, una volta di più, vi esorto a commentare. Ma non è che per forza dai commenti deve scaturire una conversazione dotta o altro, bastano anche incoraggiamenti o insulti, pure anonimi purchè costituiscano un feedback al mio lavoro. Oltre a commentare vi invito pure a condividere gli articoli perchè è solo così che può arrivare più gente e dunque più commenti e partecipazioni per rendere questo spazio sempre più popolare. Però la popolarità non è fine a sè stessa, di per sè non me ne faccio nulla, è come un mucchio di coriandoli gettati dal bambino a carnevale: sono molto belli e carini finchè in aria ma arrivati a terra non se li caga più nessuno e fanno schifo. Rendere questo posto popolare vuol dire, per me, interessare e divertire tanta più gente possibile, in modo  da migliorare la giornata magari a voi ma, sicuramente, anche a me ("Saremmo tutti uomini meno tristi se fossimo più felici" cit. Fabio Bolo). Anche perchè vorrei sottolineare il fatto che non ricevo soldi da nessuno e che quello che sto facendo è un "servizio alla comunità" pubblico e gratuito quindi non è che ho degli interessi dietro a far venire più gente.
Detto questo però un paio di informazioni di servizio. Non ho idea di quanto possa essere lungo questo articolo, sul serio. Questo perchè mi si è fottuto il pc l'altro giorno (giovedì) e ho dovuto reinstallare Windows: risultato? Non sto scrivendo con Microsoft Word ma con WordPad che, devo dire, oltre a non segnarmi nè le pagine nè gli errori fa anche abbastanza schifo. Quindi appunto non ho idea di come possa venir fuori, spero di non essere stato troppo noioso e di non averci buttato dentro troppi errori! Oltretutto questa settimana è stata un po' incasinata e, quindi, scusate se quest'articolo in alcune parti vi sembrerà un po' grezzo ma non ho avuto tantissimo tempo per lavorarci, spero lo apprezziate lo stesso. Inoltre tra poco aspettatevi un piccolo vlog perchè ho delle cose da dirvi. E quindi, per chiudere, questo articolo lo volevo dedicare ancora al mio amico Edo che non ha mai letto questa parte del libro che gli ho regalato ma che spero, leggendo l'articolo, decida di riprendere in mano!
E la prossima volta? Le opzioni sono due: se mi torna Word (e con lui la possibilità di controllare quanto è lungo l'articolo) affronterò una delle mie autrici preferite di sempre, Mary Shelley, anche se devo vedere fin dove e come gestire la cosa. Altrimenti avevo in mente di dedicarmi al romanzo gotico in generale parlandovi del "Monaco" di Lewis anche se non sono poi così certo di voler proprio trattare di questo lavoro. E quindi? Non so, sarà una sorta di sorpresa!  Ovviamente se avete preferenze non avete che da scriverle qua sotto!

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sabato 15 marzo 2014

Piccola Storia dell' Omosessualità (1): gli antichi Greci.


E rieccoci con un nuovo articolo settimanale, regolare il sabato come le mestruazioni nel periodo peggiore del mese. Quest’oggi parleremo di un fenomeno molto complesso, di cui nemmeno gli studiosi si son fatti un’idea certa e precisa: l’omosessualità nel mondo greco. Spesso e volentieri si generalizza con frasi del tipo: << Ma sì, ai Greci piaceva inculare i bambini, erano dei pedofili arrapati, delle persone squallide che se ne approfittavano di teneri ragazzini!>>. Ovviamente, manco a dirlo, questa visione semplicistica non solo è storicamente inesatta (“tutto ciò è giuridicamente scorretto” come direbbe una persona nota a qualche lettore), ma non tiene nemmeno conto di quello che doveva essere il punto di vista in materia un tempo.

Ma prima di iniziare vi annoio con un paio di considerazioni (tanto per non farvi prendere troppo bene partendo subito): non sono qui a dare giudizi morali su gusti sessuali ma a descrivere come stessero le cose un tempo. Che quello che accadeva in quel periodo fosse giusto o sbagliato non sono qua per dirlo (anche perché sarebbe un approccio sbagliato) ma, quello che posso dirvi, è come stessero le cose e come fossero pienamente giustificate e legittime per quell’epoca. Quello che oggi vi racconto non l’ho sperimentato in prima persona durante un' emozionante vacanza in Grecia in tenera età ma proviene dagli studi approfonditi di Eva Cantarella (1936-no, ancora non è morta) , una famosissima studiosa di diritto romano e greco che ha insegnato in prestigiosissime università e pubblicato tantissimi libri che tracciano un quadro completo e esaustivo della condizione giuridica degli antichi. In particolare faccio riferimento al saggio “Secondo Natura” per la BUR (10,90€) che consiglio a chiunque voglia avere una visione completa dell’argomento, esperto o meno di antichità.

Innanzitutto mettiamo le carte in tavola e “viviamo sinceri di noi” (come recita il graffito enorme sul muro di fronte alla mia finestra e che, ogni giorno, mi ricorda quanto noi umani ci meritiamo di morire tra le peggiori torture): effettivamente i Greci adulti si incaprettavano i ragazzini. È un dato di fatto: non praticavano il solo coito intercrurale (strofinare il pene tra le cosce fino a venire) come alcuni avevano ipotizzando osservando delle decorazioni sui vasi ma, come risulta chiaramente da alcune scritte su muri di caverne on Grecia (come se “Qui Krimon ha sodomizzato il suo fanciullo fratello di Bathycles” non fosse abbastanza esplicita come frase) e da numerosi brani di poeti che elogiano il fresco culetto dei ragazzi, i Greci penetravano ani non appena ne avevano l’occasione. Ma con ragazzi non si intende i bambini in generale ma solo quelli di una certa età (anche loro, come il vino, hanno bisogno di invecchiare un poco). Infatti, come recita un epigramma (composizione breve di poesia):

“D’un dodicenne il fiore mi godo; se tredici sono

gli anni, più forte desiderio sento;

chi n’ha quattordici spira delizia più forte d’amore,

più gusto chi nel terzo lustro va;

il sedicesimo è un anno divino: non io lo ricerco

l’anno diciassettesimo, ma Zeus.

Per chi vagheggi un amasio più vecchio è finito lo scherzo:

quello che cerca è <<a lui corrispondendo>>

Quindi, come risulta evidente, esiste una precisa fascia di età: al di sotto si è troppo precoci e azzardati, al di sopra ci si inizia a coprire di peli, i nemici dell’amore verso i giovani. Vediamo che chi amava qualcuno di diciott’ anni cercava qualcuno di a lui simile: infatti avveniva un importante cambiamento di ruolo nel ragazzo. Il giovane, si sa, deve essere sottomesso al ruolo passivo anche se, a un certo punto, dovrà diventare lui stesso attivo. All’inizio, in epoca arcaica, tutto ciò aveva un carattere di iniziazione alla vita adulta: il ragazzo, “inspirando” lo sperma dell’adulto tramite l’ano, acquistava le caratteristiche indispensabili per essere uomo in seguito (non vi sto a fare la storia dell’etimologia del verbo greco ma sappiate che i termini che ho usato non sono casuali). In seguito, però, questo carattere più che perdersi è mutato. Tutto è diventato una consuetudine, un modo di fare consolidatosi nel tempo e che non trova punizione nelle leggi. Era così automatico, ubbidendo a una legge antichissima, concedersi a chi era più grande che nessuno si poneva ormai troppi problemi. Però i tempi cambiano e anche la mentalità: quello che era un servizio dovuto diventa gioco erotico fatto di corteggiamenti pressanti da parte degli spasimanti e rifiuti provocatori dei giovani che servivano ad attizzare le torce. Si veniva così a creare una cerimonia d’amore quasi animalesca, fatta di allusioni giocose e rituali provocanti. Però i ruoli dovevano essere assolutamente definiti e chiari, non era lecito che si contravvenisse all’antica legge. Ma fu proprio così?

Come si sa i ruoli non si scelgono, sono dettati dalle attitudini di ciascuno anche in base al carattere e al vissuto personale e, per nostra fortuna, i gusti e le perversioni sono infiniti: quindi di sicuro ci saranno stati ragazzini che avrebbero preferito arare il campo di una bella ragazza piuttosto che farsi piantare un paletto in culo da un grasso cinquantenne oppure inserire il loro seme nell’humus dei coetanei ma non potevano (ah, come mi sento un villico contadino, tutto odorante di caldi escrementi). Tutto era rigidamente regolato da norme sociali da cui non si poteva uscire: anche il tempo per amare, come abbiamo visto prima, a un certo punto finiva (anche se ci sono casi celebri, come quello di Pericle se non sbaglio, in cui gli amanti sono poi rimasti tali per tutta la vita). Quindi, quale sciagura e decadenza dei costumi quando si vedevano uomini adulti truccarsi e acconciarsi come donne, depilandosi e vestendo leggere tuniche gialle (il colore tipico delle femmine, non è vero mimosa?), che si strappavano via anche i peli del culo pur di farsi penetrare come puledre selvagge! Infatti, quando leggiamo negli autori antichi come Aristofane o Platone, che l’amore per gli altri uomini è turpe e indegno si fa riferimento alle contravvenzioni della regola principale del buon costume (infatti è lo stesso Platone a dire nel “Simposio” che non c’è amore migliore di quello per un ragazzo) o a modificazioni nel rituale. Aristofane, il celebre commediografo (di cui vi accenno qui per la prima volta ma di cui parleremo parecchio), nelle “Nuvole”, mettendo a confronto il discorso giusto e quello sbagliato (sono proprio due attori distinti sulla scena), avendo da ridire a quei giovanetti che, nelle palestre, si sedevano per terra e poi, quando si alzavano, non coprivano con la sabbia le impronte delle loro parti intime per farle vedere a chi assisteva (le mutande non esistevano un tempo e ricordiamoci che, teoricamente, il giovane doveva far finta di opporre resistenza all’uomo maturo, non schiaffargli in bocca il pene come se fosse stata una caramella gommosa) non vuole attaccare l'omosessualità in genere ma solo quella "contro natura" (mado, che frase complessa). Ma gli intellettuali rappresentavano una percentuale minima della popolazione di Atene (come ora lo sono in Italia più o meno): infatti non dobbiamo immaginarci i Greci come uomini alti e muscolosi dai folti capelli ricci che passavano le giornate a filosofeggiare o combattere tutti nudi mentre vivevano in bellissime case fatte di marmo bianco ma, al contrario, come rozzi pastori sdentati e contadinozzi tutti sporchi e pelosi (senza deodorante o dentifricio inoltre) che non sapevano né leggere né scrivere nelle loro capanne di fango e paglia non dotate di fogne o acqua corrente. Quindi questi signori se ne fottevano altamente di cosa potesse essere giusto o sbagliato, loro infilavano il pene nel primo spazio vuoto che si presentava a loro, non stavano a farsi problemi sul sesso della persona o sul loro ruolo.

Ma le donne? Come la prendevano loro? Che potevano fare? Nulla! Erano relegate in casa e prendevano le passioni dei loro mariti per quello che erano, non potevano opporsi sottomesse com' erano. Questo dell’inferiorità femminile era un concetto fisso e irremovibile anche per autori come Senofonte che, nel suo “Simposio” (sì, ne ha scritto uno pure lui), diceva di preferire la figa al cazzo (detto proprio con queste parole). Ovviamente l’amore omosessuale femminile era considerato come la massima perversione da punire in qualunque modo. L’amore provato da Saffo, maestra delle arti della casa nel Tiaso (una specie di collegio femminile, per semplificare, in cui si imparava ad essere delle brave mogliettine), non poteva che limitarsi a qualche sgrillettata e illustrazione di dove dovesse andare il pene alle giovani fanciulle, nulla di serio effettivamente: infatti a un certo punto arrivava il triste distacco e chi s’è visto s’è visto!

L’uomo, dunque, era costretto a cambiare ruolo nell’arco di poco tempo senza aver modo di adattarsi con calma alla nuova condizione (anche se, ovviamente, il passaggio poteva essere anche graduale: infatti in numerosi casi la donna la prima notte di nozze perdeva prima la verginità anale di quella vaginale). E appunto, ovviamente, molti rimanevano passivi anche in età adulta perché non riuscivano a cambiare completamente o perché a loro, giustamente, piaceva così. Questo fenomeno, come poi vedremo nel mondo romano, andò moltiplicandosi a dismisura degenerando (ovviamente secondo la loro visione) finché non si perse del tutto il valore iniziatico della pederastia trasformandosi in uno scopare per il puro piacere (per carità, nobile anche questo come principio, ma non è proprio quello che gli antichi si aspettavano sarebbe successo). Inoltre, nella società greca dominata da precisi canoni estetici entro cui si doveva rimanere (si pensi alle coppie di analogia: bello=buono, brutto=cattivo, donna=inferiore ecc.), il passivo oltre a dover essere rigorosamente depilato, doveva essere pure dotato: infatti, al contrario della visione dominante al tempo dei romani e di Rosario Muniz, avercelo piccolo era segno di perfezione mentre la grandezza spropositata del pene rispetto al resto del corpo era simbolo di passività evidente. E così si rischiava, salvo eccezioni, di rientrare in categorie prefissate cui il mondo Greco antico era tanto affezionato senza la possibilità di esprimere sé stessi in pieno.

Come avrete capito le cose non erano così semplici come ve le ho descritte: qua ho dovuto fare una sintesi tagliando diverse parti (il rapporto con il mondo politico, i vari significati nascosti nel gesto sessuali, le visioni approfondite degli autori) che troverete ampiamente descritte nel saggio della Cantarella che presenta un linguaggio facilmente accessibile a tutti, anche a chi non ha fatto il classico. Fate conto che, come vi accennavo, gli stessi studiosi di antichità non sono pienamente concordi su certi aspetti e danno diverse letture e io non sono nessuno per raccontarvi quale fosse la realtà dei fatti. Anzi, sicuramente nella mia trattazione potrei aver inserito delle imprecisioni che farebbero inorridire qualunque studioso, mi scuso in anticipo! Però diciamo che il quadro generale è questo, non sono stato ad approfondirvelo apposta per non rientrare in ambiti poco noti ai più (e a me stesso). Ne approfitto per scusarmi anche del linguaggio verso chi si possa essere offeso leggendo l’articolo. Un modo di esprimersi volgare non presuppone per forza una denigrazione dell’argomento trattato, anzi, è a mio parere un modo di esprimersi più quotidiano che mette sullo stesso piano lettore e autore: non voglio che ci sia distacco tra di noi, sono un essere in carne e ossa come voi. Ed è proprio per questo che vi invito caldamente a COMMENTARE (ricordo che possono farlo TUTTI anche chi non ha un account Google Plus)  per instaurare un piccolo dibattito, una discussione anche sull’argomento! Inoltre vi volevo ringraziare veramente tantissimo per il feedback molto positivo ricevuto per lo scorso articolo (ha fatto il pieno di visualizzazioni ed è piaciuto in generale sentendo i pareri) e spero di appassionarvi ancora! Volevo dedicare questo articolo a Edo che ha letto il libro della Cantarella (da me regalatogli) fino a qui e che spero abbia apprezzato il riassunto!

La prossima settimana invece concludiamo l’argomento omosessualità nell’antichità con un articolo sulla sessualità al tempo dei Romani!  

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sabato 8 marzo 2014

Magica storia della Magica Magia: Magico viaggio nel Magico mondo della letteratura Magica


Salve, e bentornati a questo (ennesimo) capitolo settimanale! Oggi, come vi avevo promesso l’ultima volta, non parlerò di opere letterarie o di autori nello specifico, ma cercherò di farvi un quadro sintetico (per quanto questa non sia proprio la mia arte) ma esaustivo di un tema molto particolare e spesso banalizzato: la magia.

Innanzitutto qualche precisazione. Non dovete immaginarvi qualcosa come formule magiche, conigli dal cappello o copricapi a punta e nemmeno stregoni o maghi come questo. Siamo qui a parlare di un fenomeno culturale e, sotto alcuni aspetti, popolare, privo dei caratteri a cui noi oggi siamo abituati ma che, al contrario, è stato condotto nei secoli passati come una ricerca quasi scientifica. Inutile dire che, come vedremo, il significato stesso del termine e la concezione che ne avevano gli antichi si è radicalmente modificata nel corso dei secoli. Aggiungo anche che, a causa della lunghezza del brano, sono stato costretto a tagliare alcune parti (il “Corpus Hermeticum", il ruolo di Ermete Trismegisto e Salomone per citare giusto qualcosa) di cui però sarò contento di parlare nei commenti (che ricordo essere aperti a tutti) se a qualcuno interessasse qualche delucidazione al riguardo. Ma non perdiamoci in chiacchere generiche e cominciamo subito!

La concezione della magia era nota già agli antichi Greci (e, sul serio, cos’è che non sapessero?). Questa veniva vista come qualcosa di oscuro, impenetrabile e misterioso, lontana dal mondo considerato civile dei Greci e molto vicina all’oriente barbaro, terra geograficamente indefinita piena di prodigi e meraviglie che da sempre ha incuriosito gli abitanti della penisola mediterranea. Questo incontro-scontro tra culture, diffidenti l’una verso l’altra, e mentalità è ben visibile con la figura di Medea, protagonista prima della omonima tragedia di Euripide (485 a.C.-406 a.C.) e, in seguito, eroina ribelle delle “Argonautiche” di Apollonio Rodio (295 a.C.-215 a.C.). Medea, figlia di Eete, re della Colchide, una regione lontana che si affaccia sul Mar Nero (come ancora per poco l’Ucraina), è una maga che ha ottenuto i suoi poteri grazie alla sua parentela con Fetonte (e poi dicono che il nepotismo è un fenomeno moderno), il dio del Sole. Lei si innamora perdutamente di Giasone (che sarà stato sì bello ma, come vedremo, anche un po’ stronzo), un eroe Greco giunto nella sua terra con altri 50 eroi mitici (aveva paura di rimanere da solo la notte) per prendere il vello d'oro, la pelle di una pecora volante divina. Però l’eroe rappresenta una cultura totalmente diversa da quella della principessa della Colchide, è uno straniero, amarlo significherebbe andare contro la volontà del suo clan, del suo gruppo famigliare. Ma lei è disposta a far tutto il possibile (e anche di più) pur di potersi far spolverare la cassettiera: non solo aiuta l’eroe a recuperare il vello dorato con numerosi incantesimi, ma scappa pure con lui e, per non essere raggiunta dal padre, lo distrae lungo la via facendo a pezzi suo fratello e sparpagliandone i pezzi lungo la strada per cui gli inseguitori, con a capo il vecchio re, sono costretti a fermarsi a raccogliere i resti del giovane principe (Medea sei stata proprio una monella!). Dunque Medea è disposta a far di tutto scatenando l’inferno delle sue passioni pur di raggiungere il suo obbiettivo: ed è per questo che, pur di far soffrire Giasone che la voleva lasciare per un’altra donna (dopo un po’ ci si stufa, cercate di capirlo), dopo che le aveva fatto uccidere gente a destra e sinistra per salire al potere (tanto lei era pronta a seguirlo in tutto, non si faceva troppi problemi), è disposta a eliminare i suoi stessi figli avuti con l’eroe greco e a fuggire via (ancora una volta monella!). La magia selvaggia e passionale che proviene dalle lontane terre barbariche è così presentata come un’ arma a doppio taglio: da una parte questo mondo magico e misterioso incuriosisce e affascina ma, dall’altra, se viene stuzzicato e infastidito, può rivelarsi terribile e distruttivo. Questa è una magia che fa riferimento agli dei: la maga non fa uso delle forze della natura (come sarà invece nel rinascimento) ma invoca l’aiuto delle divinità protettrici per aiutarla (infatti scappa a bordo di un carro trasportato da una coppia di draghi alati e non sollevata da un vortice d’aria, per dire).

A Roma la magia risente ancora molto dell' influenza greca (la “Medea” di Seneca e la negromante della “Farsaglia” di Lucano sono un esempio) ma diviene anche comica e caricaturale. Le fattucchiere diventano vecchie matte (si sarebbero volentieri fatte intervistare da Andrea Diprè per il sociale) che si aggirano di notte per i cimiteri, addobbate in maniera ridicola come ci racconta Orazio nelle sue satire, per prendere ossa o strani ingredienti per i loro filtri (salvo poi essere spaventate e messe in fuga da una rumorosa scoreggia fatta da una statuetta del dio Priapo). Rimane però un aspetto fondamentale: la magia è diverso, è tutto ciò che è estraneo e proviene da una cultura estranea (in particolare dai regni alessandrini, come quello di Alessandria d’Egitto, che esportavano prodotti interculturali come il “Corpus Hermeticum” che ebbe influenze talmente vaste da toccare poeti come Teocrito). La terra della magia per eccellenza, dove si pensava che pure i sassi potessero parlare, diventa la Tessaglia, una regione della Grecia in cui si avventura Lucio, il curioso protagonista del romanzo di Apuleio (di cui vi parlo qui), proprio per imparare quest’arte.

Però, con l’avvento del medioevo e poi soprattutto del rinascimento, le cose cambiarono parecchio. Per comprendere a fondo l’argomento è indispensabile parlare prima della concezione degli spazi della natura per i medievali, poi mutata per gli umanisti rinascimentali, che è alla fine la teoria della natura elaborata dal filosofo Aristotele (384 a.C.-322 a.C.) che a noi, così abituati a sentir parlare di chimica e molecole, sembra (e infatti è) di una banalità assurda. Infatti gli antichi ritenevano che in tutto ci fossero quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco), ognuno con un proprio grado di peso (nell’ordine in cui li ho messi tra parentesi dal più pesante al più leggero) che doveva essere rispettato in natura. Così tutto ciò che era composto di terra avrebbe cercato in tutti i modi di andare in basso mentre il fuoco avrebbe cercato di salire in cielo al di là dell’aria. Inoltre esisteva un quinto elemento, l’etere, che componeva indifferentemente tutto ciò che oggi definiremmo spazio, dal Sole alla Luna passando per tutti i corpi celesti (massì, tanto si vede che è tutto la stessa cosa). In particolare tutto l’universo era organizzato in centri concentrici che piano piano si allontanavano dalla terra (pensate a un sasso gettato su uno specchio d’acqua): più si saliva, allontanandosi dalla amterialità e corporalità del nostro misero pianeta (scuuusa allora, etere, scuuusa), meglio era. Inoltre ad ogni livello corrispondeva una divinità, piano piano sempre più perfetta, che culminava con il così detto “motore immobile”, la grande divinità che faceva muovere tutto il mondo. I medievali, molto legati alla figura di Aristotele (figuratevi gli altri come erano conciati per credergli), presero paro paro lo stesso modello sostituendo però Dio al “motore immobile” e i santi e gli angeli alle altre divinità. Questa era una visione verticale del mondo definita teocentrica, ovvero con Dio (Teo dal greco) al centro di tutto, grande protagonista delle vicende universali.

Invece con l’umanesimo rinascimentale, circa nel 1400, la visione dell’universo cambia radicalmente. Al centro di tutto non c’è più Dio ma il genere umano, protagonista di ogni vicenda universale: è il passaggio dalla visione teocentrica a quella antropocentrica. Pertanto, secondo questa teoria, la natura è stata creata da Dio (lui rimane, sia chiaro, dire il contrario sarebbe costato la vita. Gesù non scherza.) per noi, creature dotate di intelletto, ed è nostro diritto, e anzi dovere intellettuale, piegarla ai nostri scopi completamente. Da qui si svilupparono numerosi nuovi approcci al mondo, tra cui quello della rivoluzione scientifica per cui è la Terra a essere al centro del sistema solare e non il Sole e quello del microcosmo e del macrocosmo: le cose che accadono dentro all’uomo (microcosmo) sono un riflesso del mondo fuori (macrocosmo) e viceversa (ovviamente è una spiegazione un po’ semplicistica ma non ho tempo di scrivere un trattato). Ed è proprio da queste teorie che nasce la magia in senso rinascimentale, ovvero l’idea di poter rendere schiava delle nostre esigenze la natura schiavizzandola (che alla fine altro non è se non il concetto di “cultura”, ovvero trasformazione di ciò che è selvaggio in qualcosa che può servirci). Quindi molti intellettuali di quel tempo che si interessavano a tantissimi argomenti, come Pico della Mirandola (1463-1494) o Giordano Bruno (1548-1600), sono ascrivibili alla cerchia dei maghi anche se non invocavano demoni o roba simile (magari Giordano Bruno in parte sì, ma lasciamolo perdere che già aveva le idee un po’ confuse di suo). In particolare il più famoso di tutti fu un certo Cornelio Agrippa di Nettesheim (1486- 1535) che, con il suo celebre trattato “Sulla Filosofia Nascosta” (tradotto suona malissimo, il titolo originario è “De Occulta Philosophia”), ispirò tantissimi intellettuali nella ricerca di metodi, più o meno fantasiosi, di un modo per assoggettare la natura. Quindi niente invocazioni diaboliche o riti strani (peccato, eh?), questi sono lasciati a un’ altra branca della magia, la così detta magia nera.

Questa, in realtà, circolava in Europa fin dal primo medioevo e con caratteristiche molto particolari. Ovviamente di opere che proponevano metodi di invocazione di demoni che assicuravano beni e ricchezze era pieno (quando uno è disperato e ha la merda alla gola cerca in ogni modo di rimanere a galla) ma, se molte avevano origini basso popolari, un’opera, giunta fino ai giorni nostri, presenta tratti particolari e che fanno pensare: mi riferisco al “Grimorio di Papa Onorio”. Come si può notare, la scelta dell’autore (ovviamente falso anche se non era ben visto data la sua incoronazione da parte di un re per motivi politici) è particolare: in fondo chi meglio di un Papa può conoscere le cose ultraterrene e riesce ad avere rapporti più o meno convincenti con il mondo divino? In ogni caso il testo presenta diverse varianti e tipologie di invocazione e non è facile capire quale sia meglio seguire: il minimo errore può rovinare mesi e mesi di lunghe preparazioni e rinunce ascetiche. Ma cosa è interessante notare è appunto questo carattere preparatorio comune a tutti i tipi di rituale. Infatti non basta svegliarsi un mattino qualunque in cui non si ha molto da fare, aprire la finestra al sole scintillante, scendere in pigiama nel giardino di casa e tracciare simboli a caso per terra: ci vogliono lunghi mesi di digiuno e preparazione mentale prima di poter provare a fare anche solo un minimo trattino per terra. Infatti il mago deve diventare un vero e proprio asceta, disinteressato alla società e ai beni materiali (tra cui sesso, denaro e potere. Dispiace a me almeno tanto quanto dispiace a voi ragazzi, vi capisco) per diventare un religioso (satanico) a tutti gli effetti. Non si richiede nemmeno sangue di vergine o cuori di neonati (che in ogni caso vorrei ricordare che fino al 28 marzo sono scontati all’ Esselunga), basta qualche agnellino o gallo, nulla di contrario alla morale cristiana, un po’ come credere in un’altra religione. D’altra parte in un’epoca piena di incertezze è anche comprensibile come la povera gente potesse cercare qualcos’altro da adorare dopo che le loro mille preghiere verso il Dio cristiano per tempi migliori erano andate a vuoto (e anzi avevano portato peste, guerre e carestie. No, ma grazie Dio, grazie davvero…). È così che nascono infatti i cuti sabbatci delle streghe. Questi furono la base di quella che oggi si  trasformata poi nella religione Wicca delle streghe (e nel partito di Casaleggio in parte). Tutti i vari riti, tramandati per tradizione orale, sono stati in parte raccolti e tramandati da Leland, uno studioso americano che vedeva nelle streghe un fenomeno di ribellione femminista contro la società maschilista del tempo. Le carte sudiate, tramandategli da una strega italiana e che, secondo lui, provenivano dall’epoca degli Etruschi (la popolazione originaria dell’Italia centrale che visse circa intorno al 500 a.C.) sono raccolte sotto il nome di “Vangelo delle Streghe” in cui Aradia, una sorta di Gesù femminile, nata dall’amore adulterino tra la dea greca Diana (protettrice della caccia e rappresentata dalla Luna, nemica del Sole simbolo di Dio, e pertanto accostata agli Inferi) e il fratello Lucifero, porta tra i mortali una anti morale cristiana. Mi piacerebbe veramente parlarvi tantissimo di quest’opera ma… l’ho finita da poco e ora non c’è proprio tempo per parlarvene bene anche se meriterebbe (commentate per saperne d più se volete, sarò felicissimo di raccontarvi tutto).

Un discorso a parte meriterebbe invece l’alchimia, una pratica particolare che però con la magia di per sé a poco a che fare se non nel rapporto con la sottomissione della natura ai propri scopi e al valore ascetico delle invocazioni per creare materiali come la fantomatica pietra filosofale. In ogni caso, per approfondire questa dottrina, rimando al libretto di Tommaso d'Aquino  (1225-1274)(grande studioso aristotelico medievale conosciuto come il “bue scontroso” per la sua corporatura e la poca propensione a socializzare con la gente) “La Pietra Filosofale” edito  da Newton Compton (5,00 €).

Quindi, di che ci rimane da parlare? In seguito la magia in quanto tale lentamente scomparve e andò degenerando fino a diventare pura superstizione come ai nostri tempi. A questo punto una classica domanda potrebbe essere << Sì, ok, è tutto un bellissimo discorso, ma tu ci credi alla magggia?>>. La mia risposta alla domanda è sì, io ci credo, credo nella magia. Credo nella magia in quanto utilizzo della natura ai nostri fini e penso sia qualcosa che si debba fare e che sia doveroso ai fini della nostra sopravvivenza come genere umano seppur nei limiti personali, senza richiedere uno sforzo morale a nessuno. Da questo punto di vista ogni ricerca medico-scientifica è da ritenersi magica: le serre, per dire, sono magia come la costruzione di dighe e canali. Quindi sì, credo in un sapere scientifico che pieghi la natura ai nostri scopi: se non usassimo il nostro intelletto faremmo un’offesa a Dio che ce ne ha dotati.

L’articolo, come già detto, è monco di diverse parti perché non c’è veramente lo spazio per dirvi tutto e, fidatevi, anche quello che vi dicono a scuola studiando certi autori come Giordano Bruno o altri è veramente poco, non c’è il tempo per approfondire un’arte così complessa e vasta. Però quello che posso fare è consigliarvi qualche testo da leggere. Iniziamo subito con “Il Senso delle Cose e la Magia” di Tommaso Campanella (1568-1639) per la KeyBook nella collana “Esoterica&Mistero” che potrete acquistare su internet per 15€ anche se, personalmente, vi sconsiglio in parte quest’opera del religioso italiano vissuto nel 1600: la lingua è quella del tempo e molto spesso è di difficile comprensione e, inoltre, nella prima metà del libro i temi trattati non sono proprio entusiasmanti. Però se siete interessati a consultare qualche testo originale non esitate, potrebbe affascinarvi! Il “Vangelo delle Streghe” curato da Leland lo potete trovare per la Fiabesca (che penso sia una piccola casa editrice indipendente) a soli 10€ che, vi assicuro, sono assolutamente ben spesi. Infine, per quanto riguarda il “Grimorio di Papa Onorio”, esiste un’edizione tanto rara quanto magnifica della Hermes Edizioni a soli 12€ curata dallo studioso Jorg Sabellicus. Egli non si limita solamente a presentarvi il testo così com’è ma, per ogni capitolo, lascia un commento completo e approfondito sui testi a cui fa riferimento il libro cercando di riempire anche le lacune lasciate dal manoscritto in maniera impeccabile. Però, dato che non è così facile da trovare, alla fine dell’articolo troverete il link alla versione pdf scaricabile gratuitamente anche se raccomando sempre la versione cartacea. Di altri testi ce ne sono ma al momento non sono riuscito ancora a reperirli. In ogni caso state attenti a non farvi truffare da certe schifezze che comunque vengono vendute indiscriminatamente nelle librerie!

Volevo come sempre ringraziarvi tutti per il supporto che mi date, le visualizzazioni e tutto quanto: il blog non sarebbe nulla senza di voi. Spero che l’argomento vi sia piaciuto anche se, mi rendo conto, per sviscerare il tutto ci vorrebbero libri e libri, non basta di certo un articoletto come questo. E il vostro rapporto con la magia qual’ è? Vi siete mai interessati? Commentate qua sotto, così si possono creare delle discussioni interessanti! Questo articolo lo dedico a tutte le “streghe” che sono morte nei roghi per opera delle barbarità compiute da chi non riesce a sopportare il diverso. L’8 marzo è anche per voi.
Vi lascio ora con un'allegra canzoncina da mettere come sottofondo a party, compleanni e invocazioni diaboliche: musichetta per feste

E la prossima volta? Di che parlare? Gli autori sono tantissimi, i temi ancora di più così come le correnti letterarie. E allora, invece di rifugiarci nei libri, perché non affrontare un argomento un po’ spinoso come l’omosessualità? In particolare vi volevo proporre, con due articoli, la visione della bisessualità prima per i Greci e poi per i Romani attorno alla quale c’è sempre molta confusione partendo dal saggio “Contro Natura” di Eva Cantarella, una grandissima studiosa del diritto antico. Quindi alla volta dell’amore omosessuale greco sabato prossimo!        



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sabato 1 marzo 2014

Collana "A Bordo di Libro" (titolo provvisorio), ep 1: il Viaggio Come Esperienza Fantastica: la "Storia Vera" di Luciano (parte 2: origini, successo e analisi)


Ed eccoci ora alla tanto promessa analisi dell’opera e delle sue influenze partendo proprio dal titolo (ovviamente l’articolo, appena pubblicato sulla trama, lo trovate qui o comunque dopo questo!). Perché la “Storia Vera”? Il racconto è evidentemente un insieme di fatti inventati, perché chiamarlo in questo modo? Per capirlo bisogna analizzare insieme il prologo e capire l’intento dell’autore. Dei vari racconti di viaggio dell’antichità, con i relativi problemi sulla veridicità dei prodigi incontrati, ho già parlato in parte qua e, se volete capire il motivo centrale del tutto, andate a leggere! Infatti è proprio contro i numerosi logografi e avventurieri cialtroni che Luciano vuole intentare una vera e propria polemica dichiarata e aperta nel prologo: ci racconta qualcosa che per sua stessa sincera ammissione non è mai successo, senza prendere in giro il lettore o l’ascoltatore con inutili balle (infatti  nell’opera tutti questi imbroglioni, come Erodoto ad esempio, sono agli Inferi appesi e torturati in vario modo). La sua vuole essere una lettura veloce e divertente, che stacchi il lettore dal grigiume della vita quotidiana e dal peso degli studi o del lavoro, trasportandolo in un mondo variopinto e colorato pieno di creature straordinarie (intento che condivide con il mio blog, peraltro): infatti il cervello, se esageratamente messo sotto stress (e chi è stato in sessione d’esami fin’ ora ne sa qualcosa), e non viene mai liberato da un momento di pausa rende molto meno! Quindi è proprio Luciano che ci mette in guardia dalle opere di questi imbroglioni e ci propone una storia tutto meno che vera!

Qualche parola va ora spesa sulla rappresentazione dei “VIPS”, ovvero delle figure che popolano i campi Elisi. Essi non sono mai storicamente (o letterariamente) attendibili o pertinenti alle descrizioni forniteci dalla tradizione storico letteraria. La loro deformazione comica avviene in due modi: o se ne esagerano le caratteristiche in modo parossistico (Elena sempre rapita, Ulisse arrapato come non mai) oppure sono l’esatto opposto di come siamo abituati a vederli (Omero non è per nulla cieco). Quindi nessuno è esente dalla satira mordace dell’autore e i vizi, i caratteri puramente umani e abbassanti, sono messi in luce: anche questi esseri da tutti ritenuti superiori sono comuni mortali portati per natura all’errore e all’imperfezione (come se dicessi che anche il Papa fa la cacca). Per il resto non compare nessun personaggio particolare a parte Cinira (di cui non c’è molto da dire se non che viene appeso per delle robustissime palle), Scintaro che riprenderò poco più avanti e Endimione, il re della Luna, che fa più da comparsa che da personaggio attivo. Lo stesso Luciano è sì il protagonista della vicenda, ma non partecipa praticamente mai agli eventi, quasi fosse un turista che non c’entra nulla o facesse parte del pubblico a una cena con delitto (molto imbarazzato mentre degusta la sua bistecchina Buitoni con la gente che gli muore di fianco).

Ma passiamo alle numerose influenze. La “Storia Vera”, come dichiara lo stesso Luciano nel prologo, è una sorta di mosaico di episodi fantastici, all’epoca famosi, tratti da romanzi e diari di avventure in terre lontane che solo in parte ci sono giunti. Nella trama ho già accennato ai riferimenti più famosi, come il viaggio sulla Luna tratto da Antonio Diogene (come lo stesso Fozio ci suggerisce) o il mare di ghiaccio simile a quello di Thule ma affrontato come fecero gli Argonauti in mezzo al deserto. Una grande e importante influenza è data anche dalle storie di folclore locale dei posti visitati in vita da Luciano. Ad esempio, la storia del viaggiatore inghiottito da una balena e al cui interno trova un uomo calvo (Scintaro) ha origine nei racconti tramandati oralmente nel nord Europa e quindi da una cultura estremamente diversa da quella Greca, creando un gioco di connessioni multietniche e cosmopolite possibili solo in un grande impero, come quello romano, in cui si dava molta importanza alla cultura locale. Ma come faceva Luciano a conoscere storie di popoli così lontani? Come detto nella sua biografia (QUI) egli viaggiò veramente tanto: in particolare insegnò retorica anche in Gallia (attuale Francia) e lì avrà sicuramente sentito parlare di queste leggende magari attraverso a qualche mercante proveniente dalla non troppo lontana Danimarca per dire.. Non dimentichiamoci però dell’influenza della religione ebraica con cui era entrato in contatto nella sua Siria natia: famoso è l’episodio, nella Bibbia, di Giona inghiottito dalla Balena. Ma questo non è l’unico elemento tratto dalle religioni emergenti in quel periodo in Medio Oriente. Infatti come non riconoscere Gesù che cammina sulle acque nella figura degli uomini dai piedi di sughero che passeggiano sulla superficie dell’oceano? Però, appunto, molte fonti non ci sono giunte ma possiamo cercare di ricavarle: i popoli della Luna, ad esempio, non mangiano ma si nutrono del profumo dei cibi cotti. Quest’informazione ci è giunta attraverso raccolte di fatti strabilianti provenienti dall’India in opere posteriori a questa (come l’ “India” di Arriano) e che sicuramente si basano su modelli preesistenti.

Tutte le immagini fantastiche dell’opera non sono mai casuali, fini a sé stesse, ma nascondono o nel nome o nel loro ruolo nella cultura del tempo sempre dei giochi intellettuali fini e criptici che il lettore, con orgoglio tutto intellettuale, riuscirà a ricavare all’interno del testo e a sfoggiare di fronte agli amici colpiti dalla sua culturina. Abbiamo già detto nella trama di come alcuni uomini sulla Luna si riproducano da soli piantando un testicolo. Questi personaggi sono gli stessi che cavalcano degli avvoltoi-cavallo nella battaglia contro i Solari guidati da Fetonte. All’epoca si riteneva, in modo abbastanza diffuso, e soprattutto in Egitto (gente abbastanza credulona a queste cose, basta leggere un poco di Erodoto per convincersene), che gli avvoltoi fossero in grado di riprodursi da soli grazie all’intervento del vento caldo che soffiava da sud. Così nessun elemento è lasciato al caso e ogni dettaglio è curato con cura e precisione intellettuale: cavalieri e cavalcature sono così legati dal metodo di riproduzione. Per i giochi di parole ho già citato nel testo quello della coscia-ventre che fa riferimento al dio Dioniso.

Ma se tante furono le influenze che ricevette, altrettanti furono gli scrittori in seguito toccati nel cuore da questo autore. Tra i più famosi ricordiamo ad esempio Cyrano de Bergerac (1619-1655), il letterato francese dal lungo naso poi divenuto famoso nell’800 con il famoso dramma di Edmond Rostand (1868-1918), che scrisse un “Viaggio sulla Luna” anticipato dal celebre viaggio di Astolfo per recuperare il senno di Orlando nell’ “Orlando Furioso” di Ariosto. Nel 1700 l’autore satirico irlandese Jonathan Swift (1667-1745) trasse grandissima ispirazione per il suo romanzo “I Viaggi di Gulliver” (di cui certamente parlerò a parte) in cui, fra i vari episodi che ammiccano all’opera, c’è quello dell’isola sospesa dei giganti di cui, come si è visto, parla pure Luciano. Ovviamente, poi, come già accennato, pure Rabelais (1494-1553) fu un grandissimo ammiratore di quest’opera, tant’è che per il suo “Gargantua e Pantagruele” ne trasse parecchi episodi come quello dell’isola delle lanterne. E infine, guardando alla tradizione italiana, ma ancora di più alla nostra infanzia, come non ricordare Pinocchio tra le svariate vittime di inghiottimenti?

Qua finisce il mio articolo sull’argomento “Storia Vera” per ora. Però vorrei ricordare a tutti che è iniziata una collaborazione col blog di World Press “I Don’t Know” in cui analizzerò sotto vari aspetti l’opera di Eichiro Oda, il capolavoro dei manga: One Piece. Perché ricordarvelo proprio ora? Ma perché il primo articolo metterà in relazione la “Storia Vera” con il manga giapponese che ha tratto tantissimo spunto da quest’opera, << Sì, ma si tratta sempre di un fumetto, cioè…>> direte voi. E su questo non posso darvi torto per nulla: One Piece è effettivamente un’avventura disegnata. Ma è anche il manga più venduto della storia oltretutto in un’epoca in cui ogni capitolo è comodamente reperibile su internet. Io, se fossi in voi, ci rifletterei un attimo!

A casa ho ben tre edizioni di quest'opera, tutte molto facili da reperire e più che valide, della Mondadori Bur e Garzanti che sono anche molto economiche. Ovviamente, se non lo si era capito, quest’opera è assolutamente da leggere e la consiglio a chiunque. Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto! Come sempre mi piacciate, condividete e spargete la voce! I commenti, ricordo, sono aperti a TUTTI e non dovete farvi problemi a scrivere, anzi, sono più che ben accetti! Volevo dedicare questo articolo alla mia ex professoressa di inglese di cui ho colto una citazione, impressa a eterna memoria sulla prima pagina della mia prima edizione della “Storia Vera”, che recita le testuali parole: “Scusate, pensavo che la professoressa stava interrogando.”.

Secondo voi che cos’è la magia? Viaggio con il Letterarte in questa oscura disciplina dall’antica Grecia fino al rinascimento con il prossimo capitolo!

 

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Collana "A Bordo di Libro" (titolo provvisorio), ep 1: il Viaggio Come Esperienza Fantastica: la "Storia Vera" di Luciano (parte 1: trama)


Salve e benvenuti a tutti quanti! Oggi, come promesso, vi parlerò di una delle mie opere preferite di cui già vi avevo promesso avrei parlato (visto che rimando ma poi faccio?): la “Storia Vera” di Luciano di Samosata. Dell’autore ho già parlato in questo articolo, dove troverete tutte le informazioni necessarie per conoscere l’autore e la sua formazione. Ma, prima di iniziare, qualche breve parola sulla collana “A Bordo di Libro”, titolo ancora provvisorio in attesa di trovarne uno migliore (se ne avete suggeritemi con un commento). Come avrete capito tratterò dei viaggi più disparati e particolari della storia della letteratura ma non necessariamente in ordine cronologico. Quindi, per dire, se per il momento non mi vedete parlare di opere precedenti a questa, come l’ “Odissea” di Omero o le “Argonautiche” di Apollonio Rodio, non è che me ne sono dimenticato o non ne voglio parlare ma, come in un viaggio “on the road” all’avventura, preferisco proseguire dove mi porta l’intuito e l’ispirazione del momento, privo di vincoli e imposizioni di alcun tipo (la verità è che non ho avuto ancora modo di leggerli con calma)
Questo articolo ho deciso di dividervelo in due parti, a causa della sua lunghezza, così da renderlo più agevole: nella prima troverete la trama riassunta episodio per episodio con varie annotazioni che poi non riprenderò nella seconda, tutta incentrata sui modelli e le fonti di ispirazione. Inoltre, alla fine di entrambi i brani troverete il link del blog “I Don’t Know” con cui collaborerò per gli articoli su One Piece (ve ne parlo dopo) di cui in ogni caso pubblicherò il link volta per volta.

L'ultima volta abbiamo visitato la fredda Thule di Antonio Diogene, arrivando ad intravedere le lontane e misteriose coste della Luna mentre oggi ci spingeremo ancora più in là, nel territorio dell’ignoto.

La trama è qua riassunta in tutti i suoi  numerosissimi e fantasiosi episodi e, quindi, se proprio non volete rovinarvi nessuna sorpresa, evitate di leggere questi due articoli e correte in libreria a comprare il romanzo: ne rimarrete estasiati!

Il protagonista, come si viene a sapere più avanti nell’opera, è Luciano stesso che, dopo un breve prologo (che analizzerò dopo), ci racconta, come se si trattasse di un diario di bordo, della sua avventura al di là delle colonne d’Ercole, poste tra il Mediterraneo e l’oceano, verso un nuovo e misterioso continente. Infatti non dovete pensare, come invece vuole la leggenda popolare, che gli antichi ritenessero che la terra fosse piatta: la sfericità della terra era un dato assodato per motivi sia scientifici sia filosofici e non aveva bisogno di particolari spiegazioni (sono semmai gli americani che ancora oggi pensano che l’Europa sia uno stato). Non ci vengono fornite indicazioni circa la composizione della ciurma: i suoi membri non sono che figure prive di importanza, come pezzetti di carta sballottati dalla corrente degli eventi. I veri protagonisti sono i posti straordinari e fantastici visitati dal protagonista, figura anch’essa assente dall’azione, come un semplice spettatore mai partecipe attivamente nelle vicende.

 La prima isola incontrata dai nostri eroi è l’isola del vino, tema centrale attorno cui ogni cosa qua si modella: i fiumi sono di vino e i pesci alcolici tanto per fare un esempio. Mentre tutti si ubriacano in un’ allegra orgia alcolica, due membri della ciurma si allontanano e incontrano degli strani esseridonne dalla testa alle gambe (passera inclusa nel prezzo) e poi ancorate come viticci al suolo. I due marinai, ingrifati come dei bisonti del Mar Morto per il vino e la lontananza, dovuta alla mancanza durante il viaggio di qualunque essere che avesse una fessura femminile (se escludiamo i compagni, possibili buchi di sfogo), iniziano a montarsi con estremo piacere le due donne viticcio (anche loro, non potendosi muovere, non ricevevano tutti i giorni la visita di qualche bastone interessante). E quindi si stanno dando da fare quando le loro gambe si attorcigliano, diventano nodose e legnose e, trasformate completamente in viticci, si ancorano fermamente al suolo. I compagni, quando li ritrovano, non posso più far nulla e decidono di lasciarli là, contenti tra le braccia delle due conne vegetali. Quest’isola vuole essere probabilmente una parodia delle stranezze che si raccontava si trovassero in India: infatti, su una stele trovata dal protagonista, si legge: “Fin qui giunsero Eracle e Dioniso”. Nell’antichità si credeva che queste due figure mitologiche avessero intrapreso una campagna di conquista in queste terre esplorandole per primi (ed erano così comparati con Alessandro Magno, il primo generale greco ad arrivare in queste terre nel 326 a.C.). Inoltre, in seguito, Nonno di Panopoli, ultimo poeta alessandrino, compose un lunghissimo poema epico, le “Dionisiache”, in cui racconta proprio di questa spedizione del dio del vino anche se i riferimenti a queste due spedizioni sono anche precedenti (nelle “Rane” di Aristofane e su numerosi mosaici).

La ciurma fa appena in tempo ad allontanarsi dalla costa quando un gigantesco tornado butta in aria la nave e lì, navigando sulle ali del vento, raggiunge la Luna, come prima era successo nel romanzo di Antonio Diogene (elemento che ci fa pensare che “Le Avventure al di là di Thule” siano anteriori al lavoro di Luciano). Il re Endimione, anch’egli umano di origine, li accoglie e li invita a unirsi a lui nella guerra contro Fetonte, il re del Sole, e il suo popolo. E così scoppia una vera e propria battaglia spaziale in cui i combattenti sono a cavallo di avvoltoi-cavalli, pulci giganti e altri strani animali che si conclude con la sconfitta dei guerrieri lunari a causa dell’arrivo tempestivo di un gruppo di centauri giganti che danno man forte ai soldati solari. Ma per fortuna Fetonte è un re buono e generoso, pronto a riconoscere il valore dei Greci e dei lunari e a lasciarli vivi anche se soggetti a qualche restrizione. Segue la curiosa descrizione del popolo spaziale della Luna: mezzi uomini e mezzi vegetali si riproducono tutti senza l’aiuto di donne. Infatti o seminano un testicolo nel terreno oppure si accoppiano tra uomini nonostante l’assenza di ani (non chiedete come facessero a fare la cacca però): un pratico buco nel ginocchio farà in modo che lo sperma arrivi fino alla coscia che rimarrà gravida ( questa parte in greco è anche detta ventre della gamba e, come vuole la tradizione mitica  riportataci da Ovidio, anche il dio Dioniso nacque così da Zeus che riuscì a mettere in salvo il feto estraendolo da Semele, l’amante con cui si era accoppiato sotto forma di pioggia dorata, prima che sua moglie Era gelosa la incenerisse con un fulmine. Sì, sotto forma di pioggia dorata. Sì, non siete i soli ad aver pensato a questo). Inoltre questi buffi abitanti presentano qualcosa come un cavolo sulla schiena ( mancava giusto il colore verde per essere dei perfetti esemplari di bulbasaur) e hanno la pancia vuota foderata di pelo, tipo marsupio dei canguri, per metterci dentro i bambini in modo che non prendano freddo (in alternativa i panini si conservano belli tiepidi fino alla pausa pranzo).

Dopo un po’ i nostri eroi cominciano lentamente a scendere verso la terra. Ma, prima di raggiungere la superficie, planano sull’isola delle lanterne (in cui si fermerà pure Pantagruele nel libro quinto del “Gargatua e Pantagruele” di Rabelais). Qui le lanterne di tutti i tipi e misure devono presentarsi all’appello fatto di continuo dal patriarca pena lo spegnimento (e dunque la morte, giustamente). Su quest’isola Luciano incontra pure quella di casa sua e ne approfitta per chiedergli notizie sulla moglie. Infatti le lanterne hanno un forte doppio senso sessuale: esse vegliano, come osservatrici silenziose, sulle donne che, lasciate (finalmente) sole dal marito, ne approfittano per farsi riempire come tacchini il giorno del ringraziamento dai vari amanti (questo è un motivo ricorrente nella tradizione arcaica, si veda il lamento di Fedra nell’ ”Ippolito” di Euripide, per dire).

Finalmente Luciano e la sua ciurma riescono a toccare l’acqua dell’oceano, ma c’è ben poco da star tranquilli. Infatti ecco spuntare all’orizzonte un banco di balene gigantesche di cui la più grande di tutte li inghiotte in un sol boccone (sulla tradizione delle balene nella cultura mitica parlerò più avanti). Tutti ormai pensano di dover morire tra atroci dolori sciolti (opzione ritenuta molto comoda dai mafiosi, a detta loro almeno) nei succhi gastrici dell’animale o schiacciati dalle sue fauci ma, fortunatamente, i denti del cetaceo (ai tempi pensavano che questi mammiferi marini avessero la dentiera) non polverizzano né loro né la nave e, invece di finir digeriti, fanno naufragio su un’isola che riposa nello stomaco della bestia (ma avete idea di quanto non sia difficile trovare tre sinonimi di balena da mettere nella stessa frase evitando ripetizioni? Non osate lamentarvi della complessità dei periodi, sia chiaro!). E, come se la situazione non fosse abbastanza paradossale, qui un vecchio, Scintaro, con un giovane di nome Cinira, entrambi naufraghi,  conduce una vita tranquilla coltivando un piccolo pezzo di terra e sopravvivendo grazie ai relitti che scampano all’enorme dentatura della balena. Ma la vita non è di certo rose e fiori per i due umani: infatti sono circondati da bellicose popolazioni di uomini-pesce (il kebab Luciano non lo mangiava, se lo fumava direttamente) che mal sopportano i due malcapitati. Allora la ciurma del protagonista, che intuisce che dovrà sopravvivere a lungo, in un modo o nell’altro, su quel lembo di terra, decide di sterminare la razza nemica (che strano, una popolazione meravigliosa e misteriosa vive su un’isola dentro a una balena in mezzo all’oceano, sterminiamola!) e, a liscate di pesce (sì, combattono usando la colonna vertebrale dei loro simili. Forse se decidono di sterminarli un motivo c’è), riescono a sterminare i nemici perdendo soltanto il timoniere, colpito alla schiena a tradimento, che verrà poi rimpiazzato in seguito dal vecchio Scintaro accompagnato da Cinira.

Il tempo comincia a passare e i nostri eroi si adeguano alla vita nel ventre del mostro. Un giorno che la balena tiene aperta la bocca per respirare un po’ più del solito (l’unico modo con cui potesse arrivare luce là dentro) assistono a una battaglia navale di dimensioni epiche! Dei giganti dalla chioma di fuoco, usando intere isole come navi, si scontrano ferocemente all’ultimo sangue proprio di fronte all’animale. Alla fine di questo sorprendente scontro i vincitori raccolgono le isole-navi avversarie e le appendono, come un trofeo commemorativo, sulla fronte dell’animale. La nostalgia della libertà fa fremere i nostri eroi che, da troppo tempo reclusi nell’animale, desiderano sempre di più uscire dalla prigionia della balena: l’ unico problema è cogliere l’ occasione giusta. E così si chiude la prima parte del romanzo. Dopo l’intervallo il secondo tempo!


Avevamo lasciato i nostri eroi insoddisfatti della loro vita nel corpo del mostro dopo aver assistito alla battaglia dei giganti con la chioma di fuoco. La ciurma decide dunque di scappare uccidendo la balena con un incendio che sarebbe dovuto scoppiare nell’isola all’interno dello stomaco. Riescono nell’intento e si allontanano dalla bocca del mostro, aperta per via delle volute di fumo asfissianti con Scintaro come nuovo timoniere e Cinira.

 Dopo una breve capatina su un isola deserta in cui vivono dei tori con gli occhi sulla punta delle corna (come avrebbe voluto Momo, il dio criticone, a cui non andavano bene come Zeus li aveva fatti), cercano di prendere il largo ma vengono prontamente bloccati da un vento così terribile da ghiacciare l’intero oceano (i riferimenti alla fredda Thule sono abbastanza evidenti). Dopo aver scavato nel ghiaccio per estrarne dei pesci di cui cibarsi riescono a liberare la nave e a farla pattinare sulla lastra scivolosa fino a tornare in acqua normalmente.

Dopo non troppo però il colore dell’oceano cambia, diventa bianco, e la consistenza si fa più densa (non pensate male, per favore, non si tratta di “Amore Liquido”). Si tratta infatti del mare di latte che circonda Galatea (Bianca in greco), una forma di formaggio così grande da sembrare un’isola! Sopra, come nell’isola del vino, tutto è collegato con ciò che riguarda il magico e interessantissimo mondo dei latticini, dai fiumi agli alberi.

Sulla via per l’isola successiva notano in mare degli uomini che passeggiano sulla superficie dell’oceano. Si tratta di una curiosa popolazione con dei pezzi di sughero al posto dei piedi, proveniente dalla vicina Sugheria, che saluta la ciurma allegramente. Ma Luciano e i suoi non hanno tempo di fermarsi troppo, sono invece attratti da una nuvola di profumo che li porta sulla terra dei Campi Elisi (l’equivalente del nostro Paradiso), in cui incontrano tantissimi eroi dei poemi omerici (Menelao, Elena e Ulisse) accanto a filosofi (Pitagora e Platone) e uomini di cultura vissuti nei secoli passati (questi citati sono solo alcuni, ovviamente, però del loro ruolo e della loro caratterizzazione parlerò più avanti nel testo). Mentre tutti si rilassano e hanno modo di incontrare e intervistare varie figure di spicco del passato (celebre il dialogo tra Luciano e Omero) il giovane Cinira, preso da un’ erezione incontenibile in mezzo a tante belle donne (e come dargli torto dopo aver passato anni da solo con il vecchio Scintaro) è fuggito con la bella Elena (proprio quella strafigona che aveva scatenato la guerra di Troia dell’ “Iliade”), sulla formaggiosa Galatea con un giocoso rimando ai poemi omerici (e al liquido bianco, sì, come volete). Mentre Elena viene perdonata, come nell’antichità (il discorso su cosa si pensasse del personaggio è molto interessante e dovrei approfondirlo), piante poche lacrime da coccodrillo, Cinira, ritenuto colpevole di tutto, viene portato sull’isola dei dannati dove sarà appeso per le palle (che comunque lo tenevano tutto attaccato). I nostri eroi, però, a causa della bravata del giovane, sono esiliati dall’isola e, prima di andar via, Omero ( che ci vede benissimo in contrasto con la tradizione che lo voleva cieco), incide una lapide per il protagonista che recita:

Luciano tutto di qui, amico agli dei beati,

vide, e di nuovo tornò al paese natio.

Questi pochi versi sono per noi importantissimi: è infatti l’unica volta che ci viene detto il nome del protagonista, nonché dell’autore dell’opera, non lasciando alcun dubbio sulla paternità dell’opera (almeno per una volta, ecchecazzo!).

Una volta partiti sono costretti a passare per la terra dei dannati: oltre a Cinira sono torturati altri personaggi di cui parlerò dopo. I nostri protagonisti, dopo una breve sosta nell’ evanescente paese dei sogni, sbarcano sull’isola dell’ immortale ninfa Calipso, l’amante di Ulisse per un annetto prima che questi facesse con calma ritorno ad Itaca (come ci racconta Omero nell’ “Odissea”) per consegnarle un bigliettino da parte dell’eroe omerico da cui era stata tanto piacevolmente incaprettata. Nella lettera Ulisse si lamenta di come si stesse bene su quell’ isola lontano dalla moglie, dai problemi di politica e da altre gravose questioni, passando una dolce immortalità a strombazzare come se non ci fosse un domani e le promette che un giorno l’avrebbe raggiunta per farle risentire che sapore avesse il bastone di Itaca.

La navigazione si fa sempre più irta di pericoli pericolosamente pericolosi: Luciano e il suo equipaggio, miracolosamente sfuggiti agli zuccopirati e ai nocenauti, banditi a bordo rispettivamente di zucche e noci giganti, e a briganti che, cavalcando delfini grandi come cavalli, li bombardano con occhi di granchio e seppie secche, giungono infine a un enorme nido di gabbiano che galleggia sull’ acqua. Dopo essere sfuggiti al gigantesco animale che, con la potenza delle sue ali, rischiava di farli naufragare, si ritrovano di fronte a una intricatissima foresta di alberi galleggianti privi di radici. Per superarla sono costretti a issare la nave sul tetto di foglie e a farla scorrere sopra (questo episodio, insieme a quello del ghiaccio, potrebbe essere un riferimento alle “Argonautiche” di Apollonio Rodio in cui una nave è traportata in modo simile nel deserto del nord Africa).

Giunti dall’altra parte, passati sopra un ponte d’acqua che si estendeva sopra un enorme baratro le cui pareti erano formate da cascate che cadevano a precipizio, si trovano sull’isola dei Testadibue, una popolazione barbara cornuta simile ai minotauri. I mezzi animali, dopo aver attaccato l’equipaggio uccidendone ben tre membri, vengono a loro volta sconfitti dai nostri. In seguito la navigazione si fa più tranquilla: si accostano alla nave, durante la traversata, popolazioni pacifiche come quella degli uomini barca, che usano il proprio grosso (come ci dice anche il nostro sorpreso autore) pene in erezione come albero maestro per navigare nell’oceano.

Infine i nostri stanchi eroi giungono su un’isola piena di donne bellissime e vogliosissime (l’isola di Red Tube) che vogliono essere trapanate come dei mobili dell’Ikea. In realtà si trattata di streghe per metà asino che si cibano di carne umana dopo aver calmato la fagiana in fiamme. Ma il massacro viene evitato grazie al geniale intuito di Luciano (teschi spolpati e resti di carne umana sparsi per terra avrebbero insospettito pure me ammetto) che riesce ad avvertire i compagni in tempo.

Una volta partiti i nostri eroi riescono ad approdare finalmente nel nuovo continente dove si conclude la pazza “Storia Vera” di Luciano con la falsa promessa di un seguito.

E questo era tutto per quanto riguarda la trama. Come già detto nell’articolo dopo trovate il commento completo di fonti e influenze dell’opera e in cui approfondisco diversi aspetti tutti comunque molto interessanti a mio avviso. Intanto grazie mille per aver letto fin qui e per il supporto! Oltre a raccomandarvi di mettere mi piace, condividere e spargere il verbo non posso evitare di farvi notare che i commenti sono aperti a TUTTI, iscritti o meno a Google Plus, e che sono sempre molto graditi! Anzi, se andate a vedere indietro, spesso rispondo ampliando ulteriormente alcuni punti, quindi sotto a scrivere!
 
 
 
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