martedì 26 gennaio 2016

Un Americano alla Conquista di Camelot

Se domani mattina vi svegliaste in un'epoca lontana, in mezzo agli antichi Romani, per dire, come vi sentireste? Mark Twain, una delle menti più vivaci del XIX secolo Americano, ha provato a immaginarlo in "Un Americano alla Corte di Re Artù" (1889), uno dei suoi molti romanzi scritti per un pubblico adulto e che, in seguito, vennero indirizzati per un target più giovane. Ovviamente non stiamo a controllare se il libro è pieno di stragi o di frasi complesse del tipo:

"Lei ha sentito parlare della trasmigrazione delle anime, ma che cosa sa della trasposizione di epoche e di corpi?"

Massì, cosa vuoi che capiscano i bambini tanto, no? E sì che questo libro è edito, in Italia, dalla Ed.It per una raccolta indirizzata a un pubblico giovanissimo, target condiviso anche da altre edizioni. Ma polemiche a parte, andiamo a vedere brevemente di che parla "Un Americano alla Corte di Re Artù"!

Il nostro protagonista si chiama Hank Morgan ed è uno yankee, come ci dice il titolo originale dell'opera, quindi non un semplice Americano ma qualcuno fortemente convinto delle sue origini: un nazionalista diremmo oggi, convinto ciecamente del sogno americano e compagnia bella. Vive la
sua vita spensierata lavorando in una fabbrica di armi dove, un giorno, fa a pugni con un dipendente: messo a tappeto, si risveglia, appunto, nella Bretagna dei poemi cavallereschi Medievali. E qui inizia una serie di avventure che lo vedono coinvolto al fianco di Re Artù, Mago Merlino, Ginevra e compagni. Tuttavia il nostro yankee, che ha fortissimi istinti nazionalisti e imperialisti, non se ne sta con le mani in mano ma va a modificare, piano piano, la realtà che lo circonda. Finisce, così, per aprire fabbriche, istituire i giornali, mandare cavalieri a vendere il sapone porta a porta e altre amenità. Tuttavia, a un certo punto, la situazione degenererà e andrà a finire tutto in tragedia! Come? Non sarò certo io a rovinarvi il finale, ma questa cosa non ci impedirà certo di approfondire un po' meglio quel che succede...

Hank è profondamente convinto che la sua cultura sia superiore alle altre: non ha un minimo momento di esitazione, non crede che quello che lo circonda sia frutto del suo tempo ed è, in ogni caso, destinato a mutare. No, lui vuole, deve quasi, accelerare il processo in nome di una ragione superiore non ben specificata e che si concretizza, di fatto, in un desiderio di supremazia sull'altro. La sua follia, totalmente egocentrica e narcisista, lo porta non solo a voler esser visto come un mago onnipotente dallo stesso Artù ma, addirittura, a voler regnare sull'intera Bretagna e da lì marciare su tutto il mondo. A renderlo diverso non è la conoscenza della storia o della cultura ma la mera forza bruta, la possibilità di usare esplosivi e l'energia elettrica. Certo, prima si è impegnato, come accennato, in attività culturali che, però, nel momento dell'azione si sono rivelate assolutamente inutili e, anzi, hanno rischiato di ritorcerglisi contro a volte. In fondo, c'è da chiedersi, questo personaggio è, effettivamente, positivo? Oppure, al contrario, incarna un modello negativo che, in fondo, l'autore ha voluto prendere in giro?



I tratti essenziali, ve ne sarete accorti, sono quelli di un colonizzatore. L'occidente, per secoli, ha operato questa strategia: troviamo un posto nuovo, vediamo che è inferiore, facciamo finta di volerlo aiutare e in realtà lo sopprimiamo controllandolo. La facciata è positiva e, c'è da starne certi, alcuni intellettuali hanno veramente creduto di poter dare una mano alla popolazione locale! Tuttavia i governi non la pensavano così e, da quelle zone, raramente è uscito qualcosa di veramente soddisfacente o che, a un certo punto, non si sia ribellato. Questo è il caso, appunto, degli Stati Uniti che hanno sviluppato, in seguito, un fortissimo senso di indipendenza e uno spirito nazionalista che, oggi come oggi, risulta a tratti addirittura grottesco. E quindi, nel cercare di capire gli intenti di Twain, appare molto buffo notare come il colonizzato sia tornato indietro per sottomettere gli antichi padroni. Senso di rivalsa o ironica presa in giro?

Sinceramente faccio fatica a capirlo. Da una parte, conoscendo l'autore, mi pare impossibile che un romanzo del genere sia, in realtà, una grande metafora a favore della colonizzazione. Dall'altra, però, non possiamo ignorare l'atmosfera del tempo e le idee che circolavano e che, ricordo, hanno portato a due guerre mondiali e conflitti sanguinosi per le varie indipendenze. Rimane il fatto che abbiamo tra le mani un romanzo mediocre e abbastanza divertente il quale, però, ammetto avermi inquietato soprattutto sul finale, con quello che succede. È come se i fatti che si susseguono fossero così tragicamente comuni da sembrare banali nella loro tragicità. E voi, avete avuto modo di leggere questo libro? Che ne pensate? Leggereste mai un romanzo del genere a vostro figlio? Fatemi sapere qui sotto nei commenti o in pagina! Intanto vi do appuntamento alla prossima settimana!



martedì 19 gennaio 2016

Futurismo Anno 2016

La letteratura italiana è piena di movimenti dimenticati e, quando tornano utili, rispolverati per poi essere riabbandonati in un cassetto. Tra questi, uno dei più ignorati, almeno negli ultimi anni, è il futurismo. Certo, diciamo che la forte misoginia e l'amore per la guerra, con quel profumo di fascismo e nazionalismo malsano che emana dalle pagine di Marinetti, non hanno aiutato questi autori ad avere un posto d'onore tra i giganti del XX secolo. Eppure, rileggendo di recente i loro manifesti (editi in una bellissima edizione della Abscondita in cui li trovate tutti raccolti), mi sono accorto della loro forza e lungimiranza che va al di là di alcune tematiche un po' spiacevoli anche per il sottoscritto. Analizzare il futurismo in un solo articolo è a dir poco impossibile, quindi ho deciso di prendere tre temi che, rivisti secondo la giusta luce, possono dare, secondo me, una grande mano a chi si trova in momenti di sconforto di fronte alla triste realtà che ci circonda, portando a una rivalutazione di questi artisti.

A tal proposito la prima parola che vi propongo è "Innovazione". Non come sinonimo di un cambiamento lento e progressivo ma di una vera rivoluzione, violenta come una valanga che precipita, onnipotente, sul fianco gigantesco della montagna, e spazza via d' un colpo interi villaggi coi loro abitanti. Cambiamento radicale, quindi, di tutto ciò che è, per usare un'espressione futurista, "passatista", legato a epoche andate, che ci lega a convinzioni salde ma antiquate. La meraviglia per il nuovo, per il diverso, verso forme di bellezze altre, mai viste, ma altrettanto sorprendenti. Ad esempio, la bellezza per un enorme macchinario industriale che non rispecchia i nostri canoni classici, tipici ad esempio di una statua greca, ma che con la sua massa di metallo, potente e assordante, plasma la materia, la rigira, sottomettendo la natura al suo controllo! Una creazione dell'uomo bellissima, che riesce a modificare sostanzialmente la realtà, qualcosa a cui noi siamo abituati ma di cui l'uomo è testimone da appena un centinaio d'anni. Il vecchio è vecchio, e tale deve rimanere. Anche lui, in fondo, è stato, a sua volta, innovazione di qualcosa di precedente, perché non dovremmo fare lo stesso e ribellarci alla polvere?

Legato a questo concetto riposa, indomita, la seconda parola: "Uomo". L'uomo, al centro del mondo che lo circonda, è onnipotente nella sua conoscenza della Natura che lo circonda. L'uomo è il super-uomo di Nietzche ma senza connotati filosofici di alcun tipo: ognuno può essere un eroe incredibile e può esprimere sempre al meglio le sue potenzialità, basta volerlo. Forza e coraggio sono i suoi attributi principali insieme al genio creativo, che lo contraddistingue dagli altri esseri viventi e lo accomuna a un Dio, in grado di modificare la Natura a proprio piacimento. Non bisogna sottovalutarci o affidarci passivamente a qualche essere superiore ma essere protagonisti del nostro tempo.

Essenziale, poi, "Movimento" e "Modernità". Vedo, spesso, disprezzare nuove tecnologie in favore di vecchi sistemi, seguendo il detto "si stava meglio quando si stava peggio". La modernità è liquida, è movimento, è azione e cambiamento, ormai sempre più pura istintività, non lento ragionamento, e richiede menti sveglie, intelligenti e brillanti. Non c'è tempo per lente speculazioni secolari, dibattiti infiniti sul bene e sul male o ragionamenti moderati. La Modernità richiede immediatezza e prontezza di riflessi, non si ferma, continua a mutare forma, si spande e contrae costantemente al suono di battiti di ciglia. La forza del Movimento, dell'Innovazione di cui abbiamo parlato prima, si sposa perfettamente sia
con i macchinari, le automobili grattacieli e aereoplani dei primi del 1900 sia con il nostro internet, fatto di dati frenetici che si scontrano nell'etere, strumenti per diffondere   nostre proiezioni contemporaneamente nel mondo, razzi che si fiondano nelle oscurità cosmiche dell'universo, la conoscenza a portata di pochi click. Dobbiamo amare il mondo che ci circonda, adattandolo ai nostri bisogni così da vivere il meglio possibile, saper approfittare delle opportunità che ci offre. Sputiamo sul piatto muffo dei nostri padri ammalati e costruiamoci, insieme, un futuro migliore in cui vivere, cercando di non essere così sciocchi come i nostri avi per poi, alla fine, magari sgretolarci in miseria ma stendendo la strada ai nostri figli.


Un articolo senza pretese, vero, ma che mi sento di dedicare a chi ha dei dubbi sul suo presente, passato e futuro. A chi non sa dove sbattere la testa e cerca un centro di gravità permanente. A tutti i miei lettori. A chi ha letto fin qua. A me stesso.

Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini

martedì 12 gennaio 2016

Big Brother is Watching You: Brevi Storie di Regime

Si possono dire tante cose contro la rivoluzione inglese di Cromwell, quella Francese e la recentissima Russa ma, a tutte quante, dobbiamo in realtà una cosa importantissima: l'idea di ribellione del popolo per il popolo (ok, di questo possiamo discutere poi, ma per ora seguitemi). Sembra una cosa da
poco ma, in realtà, quasi nel resto del mondo questo principio manca o, se c'è, non è stato attuato con successo. In Cina, ad esempio, l'imperatore non è mai stato un essere superiore ma riceveva un "mandato celeste" da parte delle sfere divine: qualora non avesse adempiuto al suo compito correttamente, sarebbe stato giustamente destituito e rimpiazzato. Peccato però che, nel 1912, a far crollare un impero con più di 2000 anni alle spalle furono gli occidentali che, in seguito ai disastri delle guerre dell'oppio, fecero talmente pressione che il potere si sgretolò. E se le cose qui finirono male, le altre volte non è che sia andata molto meglio.


Chi di voi sapeva che in Thailandia c'è, al momento, la monarchia col più longevo regnante al mondo (Rama IX in carica dal 1946) affiancato da un
feroce regime militare? Chi di voi sapeva che i colpi di stato, dalla seconda guerra mondiale ad oggi, sono stati 19, ciascuno accompagnato da numerose vittime per la repressione delle proteste? Chi di voi sapeva che quest'ultima giunta, instauratasi appena due anni fa, ha abrogato di netto l'intera costituzione, nell'indifferenza più assoluta del monarca? Eppure quando si arriva a Bangkok tutto è impregnato del più becero nazionalismo fascista, disgustoso agli occhi di chiunque abbia provato cos'è la democrazia. Giganteschi ritratti del re spiccano in mezzo alle strade della capitale, cartelloni sull'autostrada lo raffigurano mentre compie le azioni più quotidiane, eroe del popolo, e ogni tanto spuntano altarini al lato dei marciapiedi in suo onore, ricoperti di freschi fiori arancioni. Un culto della personalità sfrenato, deleterio aggrapparsi a un'idea di sovrano tipo 1600, che appare tanto sfarzoso e kitsch, col palazzo reale di Dusit stracolmo di enormi mobili d'oro che richiedono anni di lavoro a centinaia di artigiani (e non sto esagerando) nel mentre sopravvivono abusi di potere, corruzione e assenza di democrazia. Ma questa non è la cosa più spaventosa di tutte.


Il senso di oppressione più grande l'ho percepito in Birmania, attuale Myanmar, dove, invece, è assente una monarchia e il regime militare è travestito da partito. Lì non ci sono cartelloni, onorificenze o ostentazioni di potere. Molto peggio. Vi è il completo anonimato, nessuno accenna alla faccenda che non deve essere accennata, regna apparentemente la pace. In realtà ci si accorge presto che qualcosa non va quando compaiono, a volte, per strada, barriere coperte dal filo spinato, il comune di Yangon, la ex
capitale, è protetto come un fortino da un manipolo di soldati e si viene a sapere che alcune zone del paese non sono accessibili agli esterni. Ma per strada, allo stesso tempo, non vi è polizia, ed è la cosa che più mi ha messo i brividi appena l'ho notata: a parte qualche sporadico militare e agente in divisa, spesso a sorvegliare il traffico, le forze dell'ordine appaiono assenti. Eppure vi sono accademie militari, scuole di polizia e quant'altro, ben visibili e indicate. Ma gli agenti dove sono? La risposta non vi è ancora abbastanza chiara? Sono tutti in incognito.

Agli angoli delle strade? Seduti al bar? A vendere foglie di betel sui marciapiedi? Dove sono nascosti gli agenti, che fanno, cosa sorvegliano, perché? Non c'è da stupirsi che agiscano così quando una legge prevede, addirittura, pene severissime per chi si azzarda a parlar male del governo. E sì che poliziotti in borghese sono ovunque nel mondo: mi ricordo benissimo
come marciassero al fianco di quelli in divisa a Pechino, entrando a piazza Tian an Men (QUA li ho filmati). Anonimato, impersonalità e mimetismo: questi alcuni caratteri fondamentali di una polizia invisibile, che agisce nell'ombra, sempre pronta a colpire. Questo trovo veramente oppressivo: non un vecchio pagliaccio vestito di bianco e giallo ma una massa scura di oppressori pronti a colpire. La presenza di un Grande Fratello Orwelliano e di un regime fascista possono portare a risultati inimmaginabili. Avere, invece, un punto di riferiemnto come un re, così al centro dell'attenzione,lo rende solo apparentemente un simbolo forte: in realtà basta abbattere lui per eliminare l'intero sistema.



A confronto la cacotopia Orwelliana di 1984 sembra un gioco per bambini, con un regime dittatoriale che è riuscito, comunque, ad addomesticare l'intera popolazione che non si accorge dei soprusi, catturata in un gioco di potere internazionale. Qui la realtà è molto più concreta, le repressioni avvengono perché la gente, che sa quali potrebbero essere i suoi diritti, prova a ribellarsi. La consapevolezza crea disagio e malessere, al contrario della placida incoscienza. 




Di tutti gli articoli, questo è stato sicuramente uno dei più difficili da scrivere in due anni di attività. Il problema sta nel volervi comunicare qualcosa che, vissuto dal vivo, ha avuto per me un effetto stranissimo. Un senso di disagio costante, quasi palpabile, che finisci per avvertire nella gente che, naturalmente, lo dissimula nella quotidianità. 

Anche per oggi l'articolo si conclude qua e spero vi sia piaciuto! Per tenervi aggiornati sulle prossime uscite e sul raduno a Milano domenica 17 venitemi a trovare in pagina!

martedì 5 gennaio 2016

Il Nuovo Fardello dell'Uomo Bianco

Avete mai sentito parlare de "Il Fardello dell'Uomo Bianco"? È una poesia del 1899 composta da Rudyard Kipling, il celebre scrittore inglese autore, tra le tante opere, di "Cuore di Tenebra" e "Il Libro della Giungla". Fiero cittadino dell'impero britannico, invitava l'uomo bianco europeo, forte della sua cultura millenaria, a colonizzare i selvaggi che popolavano il resto del mondo e a imporre loro i propri usi e costumi, superiori moralmente alle barbarie dei popoli più esotici. Figlio del suo tempo, di certo non possiamo né condannarlo né giustificarlo con i nostri occhi moderni ma, ciononostante, i tempi sono cambiati, siamo nel 2016 e di colonialismo non si dovrebbe, almeno teoricamente, più parlare. Tuttavia, quando sono stato in Myanmar, uno dei paesi più poveri al mondo, per 3 settimane una decina di giorni fa, non ho potuto fare a meno di sentire qualcosa dentro di me crescere, pesante e fastidioso. Incredibile a dirsi, avevo sviluppato un Nuovo fardello dell'uomo bianco!

Il Vecchio Fardello dell'Uomo Bianco (illsutrazione di Gillam, tra 1800 e 1900)


Prima di passare alla riflessione vera e propria, qualche piccola informazione su questo stato, per muoverci poi più agevolmente. Ex colonia britannica, la Birmania conquista l'indipendenza, al termine della seconda guerra mondiale, grazie al generale Aung San, padre della famosa San Suu Kyi, e che ancora oggi viene riconosciuto come il più importante eroe nazionale. Sfortunatamente non fece in tempo a salire al potere perché eliminato da un nemico politico. Da quel momento la Birmania non ha più avuto pace: molti giri politici e governi dispotici sono culminati in una crudele dittatura militare (quella che ha cambiato il nome dello stato in Myanmar, spostando la capitale a Naipidaw da Yangon) che, recentemente, ha assunto la forma solo apparentemente democratica del partito: i nomi delle istituzioni cambiano, ma la gente rimane sempre la stessa. Ovviamente non c'è spazio per i diritti umani fondamentali che, come succede in molti stati di quella zona, non vengono garantiti alla popolazione. Giusto per tirare le fila della situazione: stato finto democratico, vera dittatura militare, con un'economia messa in ginocchio da deleterie scelte autarchiche, niente diritti umani per una popolazione che, spesso, non ha nemmeno l'acqua corrente in casa.

Detto ciò, arriviamo alla questione: il tipico occidentale bianco, ricco e grassoccio, come deve reagire di fronte a questo mondo? Deve o non deve aiutare? A molti la prima risposta suonerà automatica, ma è proprio così? Un popolo, una nazione, non ha diritto a stabilizzarsi per proprio conto? Questo è successo a moltissimi paesi occidentali, politicamente e economicamente, piano Marshall a parte. I cambiamenti avvengono sempre, ci volessero anche secoli, e sempre con processi naturali. Inoltre molti interventi recenti (Vietnam, Corea, Medio Oriente), portati avanti dalle grandi potenze "dispensatrici di democrazia" e benessere, non hanno portato a situazioni troppo piacevoli. Quindi: aiutare, un dovere o una possibilità?

il Nuovo Fardello dell'Uomo Bianco
Ma facciamo finta che aiutare un paese in pesanti ristrettezze economiche sia un dovere e che, quindi, si debba considerare di dare una mano a questi paesi in via di sviluppo. La domanda che mi sorge immediata è: aiutare tutti o solo alcuni? E attenzione, non lo dico perché ci son paesi di serie A e B! Prendete, appunto, il Myanmar. Un paese che, dal punto di vista dei diritti umani, presenta una situazione a dir poco immonda. Inoltre alcune zone del paese sono ancora off limit, con territori a nord dove viene prodotto l'oppio o le cave di giada in cui i minatori lavorano in situazioni indecenti (a dicembre ci sono stati 100 morti, schiacciati da cumuli di detriti di scarto). Aiutare questo stato non significherebbe, dunque, scendere a patti con un governo dittatoriale, antidemocartico, violento e repressivo? Non sarebbe una presa di posizione compromettente? Un po' come accettare, tacitamente, l'esistenza di certe leggi e la negazione di determinati diritti pur di tenersi buona una determinata zona, come fanno Giappone, Cina, Corea del Sud e molti altri. Però, d'altro canto, si può distogliere lo sguardo da un effettivo stato di necessità e povertà? La gente sta male, vive in capanne senza i servizi minimi, schiavi di una moneta svalutatissima. Azioni mirate possono, certo, essere utili a ridurre molti problemi ma, allo stesso tempo, a che costo?

E qua arriva l'ultima questione. La gente del luogo, da quanto ho visto, è sì povera ma estremamente dignitosa. Quella che noi definiamo "povertà" per loro è "normalità". Non hanno idea di come sia realmente il mondo al di là, a volte, del proprio villaggio di 20 case. Vivono tranquillamente la loro vita con quello che hanno, come noi viviamo la nostra, senza troppi affanni o preoccupazioni. Concetti come "carriera", "leasing" o "PIL" e altre diavolerie del XX secolo non sono noti o, comunque, rimangono su un piano secondario rispetto alla centralità della "Vita", concetto che da noi si sta piano piano perdendo. Una realtà che ha perso il valore di "umanità", che ha paura, nevrotica e ipertesa. Veramente vogliamo "regalare" quest'inferno a chi, alla fine, vive felice per conto suo? Chi siamo noi per decretare cos'è "meglio" o "peggio", "giusto" o "sbagliato", "bene" o "male"? E no, non sto parlando di diritti fondamentali riconosciuti, almeno teoricamente, dalla totalità degli stati del mondo e che costituiscono uno dei pochi, pochissimi, punti fissi del diritto internazionale.

Ecco, di fronte a queste domande viene il bello: "Che si fa?". Io ho una mia personale opinione che vi espongo di seguito ma, ovviamente, l'invito è di farmi sapere la vostra, anche senza leggere la parte dopo che è, quasi, un piccolo extra irrilevante per l'articolo. Vi ricordo che potete commentare qui sotto oppure sulla pagina Facebook! Se non continuate vi do, ovviamente, appuntamento al prossimo articolo che cerco di far uscire tra giovedì e venerdì!


Quindi, cosa ne penso io? Sono dell'idea che meno si interviene in un paese straniero meglio è, ma che il rispetto di alcuni diritti fondamentali sia assoluto e necessario. Quindi direi sì a entrare in contatto con regimi repressivi affinché questi si democratizzino, in un certo senso, magari favorendo gli scambi economici ma senza intervenire in prima persona. E non parlo di piccoli grandi passi ma di vere e proprie azioni decisive, atti che necessitano di grandi cambiamenti. Non si aiutano regimi dittatoriali, mai in nessun caso, e un popolo deve avere il diritto più assoluto di autodeterminazione, scegliendo lui se e come crescere. Non puntare sull'economia ma sul benessere interiore della popolazione, donando loro la possibilità di vivere liberamente, esprimendo senza problemi la propria opinione e facendo sì che la storia segua il suo corso!